Due situazioni familiari e due quadri sociali opposti: l’Africa sconvolta da guerre tribali e religiose, la Danimarca esteriormente perfetta, ma che nasconde sotto una patina del benessere violenza e ferocia. Anton è un medico che opera per conto di un’associazione umanitaria in un paese africano sconvolto da scontri che non conoscono pietà, la moglie, dalla quale sta separandosi, è anche lei medico, ma lavora in un lindo ospedale danese. Il loro figlio maggiore, timido e introverso, è vittima dei bulli che infestano la scuola in cui studia. Claus si è trasferito in Danimarca dall’Inghilterra con il figlio Christian, dopo essere rimasto vedovo. I due giovani frequentano la stessa scuola e fanno amicizia quando Christian picchia a sangue il bulletto che guidava i persecutori di Elias.
E’ un’amicizia incentrata sulla rabbia – il ragazzo ritiene il padre responsabile della morte dalla madre – e sull’uso della forza per difendere le proprie ragioni. A nulla valgono gli insegnamenti di Anton, che mostra ai due ragazzi come si possano anche essere schiaffeggiati senza perdere dignità. I due giovani confezionano una bomba con materiale pirotecnico rinvenuto casualmente e fanno saltare in aria l’auto dell’aggressore del medico offeso ma Anton rimane gravemente ferito nell’attentato, che rischia si colpire anche una madre e il figlio che passavano per caso, mentre Christian tenta di suicidarsi travolto dal senso di colpa per avere rischiato di uccidere l’amico. Tutto finirà nel migliore dei modi, anche se le ultime immagini del campo profughi in cui lavora Anton, sono lì a ricordarci come la violenza continui a farla da padrona. In un mondo migliore la danese Susanne Bier riprende temi che le sono cari: la disgregazione familiare, l’incomunicabilità fra genitori e figli, l’ineliminabilità d’istinti omicidi e violenze diffuse, anche in società apparentemente evolute e civili. Lo fa con un’opera ben costruita, fotografata in modo stupendo, commuovente e inquietante. L’unico difetto è un eccesso di semplificazione di una chiusura quasi buonista, che contraddice la lucidità dello sguardo con cui è affrontato il racconto. Pecca marginale che non inficia il bilancio di un film sicuramente da vedere.