Noi credevamo è l’ultimo film diretto da Mario Martone. Diciamo subito che è un’opera con almeno un paio di pregi. Il primo segnala come, affrontando il tema del Risorgimento attraverso i percorsi di vita di tre amici pugliesi, dagli anni trenta ai settanta del milleottocento, usa un’ottica basata su un punto di vista che si può definire gramsciano. Vero è che tende anche a costruire una metafora del dramma e della condanna al fallimento per qualsiasi forma di terrorismo. In questo senso il film muove da un’intelaiatura già nota: l’unificazione dell’Italia letta come rivoluzione mancata causa il connubio fra borghesia piemontese e aristocrazia meridionale.
E’ un punto di vista già usato da Luchino Visconti ne Il Gattopardo (1963). A quest’approccio se ne affianca un altro che guarda apertamente al dramma delle Brigate Rosse e a quello di tutti gli altri movimenti, velleitari e armati, nati sulla scia delle delusioni sessantottesche. In questo i destini di Domenico, Salvatore e Angelo metaforizzano parte della storia italiana del secolo successivo, sino ai giorni nostri, passando dall’omicidio politicamente fratricida alla morte per ghigliottina, dopo il fallimento di un attentato alla vita di Napoleone III, sino alla constatazione che i tempi sono ormai cambiati e coloro che ieri predicavano rivolte e bombe oggi siedono in Parlamento. Sono queste le parti di maggiore interesse cui va aggiunto, è il secondo pregio, l’avere utilizzato il meglio del teatro italiano, Valerio Binasco, Renato Carpentieri, Roberto di Francesco, Toni Servillo, Alfonso Santagata, Jurij Ferrini, Anna Bonaiuto, Vincenzo Pirrotta. A questo punto subentra l’elenco dei momenti non riusciti, quelli che impediscono all’opera di collocarsi a livello di grande cinema. Intanto ci sono alcune stranezze scenografiche, come i pali in cemento armato a metà dell’ottocento e tubi al neo in vista sullo sfondo, ma il regista ha dichiarato che si tratta di scelte volute per collocare quei fatti nella continuità sino ai giorni nostri. Tuttavia la cosa che più disturba è il tono complessivamente televisivo dell’opera, come la lunghezza, anche se la versione per le sale è più corta di quella originale presentata alla Mostra di Venezia che duravano oltre le tre ore. Per non parlare di alcune scansioni interne al racconto che ne rivelano la predisposizione a essere diviso in varie puntate a uso del teleschermo, circostanza confermata dallo scarso respiro di molti esterni. Inoltre, ci sono la frammentazione della narrazione e un certo moralismo nel presentare problemi politici di grande complessità alla luce di una sola chiave di lettura: il tradimento dei rivoluzionari di ieri, diventati oggi cani da guardia del potere. In definitiva è un film (un telefilm?) di grande professionalità, tendenzialmente dissacrante in realtà monco.