La pecora nera segna l’esordio, dietro la macchina da presa, di Ascanio Celestini, nome molto noto ai frequentatori dei teatri. Chi lo conosce sa che si tratta di un poeta che costruisce i suoi monologhi mescolando malinconia a dure sferzate critiche nei conforti della politica, del mondo moderno e dei suoi rituali. In poche parole è un cantore in cui possono riconoscersi gli emarginati e tutti quelli che il banchetto consumistico mette fuori dalla grande tavola imbandita. Sono queste stesse linee che si intravvedono al fondo di questa prima opera cinematografica, derivata da uno spettacolo (2005/6) e un libro e DVD (2009) con lo stesso titolo, in cui il poeta e regista racconta la vita di un infermiere di un manicomio il quale, alla fine, si rivelerà un ricoverato che crede di essere un paramedico.
Il tutto intessuto di acute osservazioni sui rapporti con e fra i degenti, le difficili relazioni con le suore che gestiscono il ricovero, le note sull’amore impossibile per un ex-compagna d’infanzia, oggi commessa in un supermercato e amante del direttore dell’emporio, i sogni e i triboli di un altro ricoverato (immaginario) in una struttura più simile a un carcere che a un vero istituto di cura. Siamo nel 1978, anno della morte di papa Giovanni Paolo I, e nei manicomi si usano ancora elettrochoc, letti di contenzione e si riempiono i pazienti di tranquillanti e di botte. Il modo di raccontare del regista è tutt’altro che lineare, le immagini sono immerse in toni marci del tutto in sintonia con la linea essenziale del film. Tutto questo conferisce allopera un notevole interesse che unisce proficuamente lo sguardo politico alla notazione psicologica.