La grande scommessa (vinta) da parte di Alessandro Serra è stata quella di trasfondere uno dei più noti lavori di Shakespeare all’interno della tradizione sarda, creandone una lettura originalissima. Il suo modo di affrontare il testo, con rispetto ma anche con tanta curiosità, trasforma pagine a tutti note in una nuova esperienza da vivere tutti assieme. La scelta principale è di raccontare tutto utilizzando la penombra per fare vivere emozioni diverse allo spettatore che assiste allo spettacolo senza potersi aiutare più di tanto con le espressioni degli attori, attori che vivono i loro personaggi in maniera dinamica, con movimenti repentini, corse che raccontano di momenti di disagio e della loro paura. Urla che squassano il buio, rumori che creano tensione (la rappresentazione inizia con una lunga tempesta sottolineata da suoni sinistri), un vero e proprio balletto che rappresenta fonte inesauribile per sviluppi drammaturgici.
I costumi di quasi tutti i personaggi sono radicati nella tradizione isolana e ricordano i carnevali della Barbagia che rivivono anche attraverso l’utilizzo, come dice l’autore, di suoni cupi di campanacci e antichi strumenti, le pelli animali, le corna, il sughero. I rituali millenari della cultura contadina sono perfettamente inseriti nella drammaturgia di Alessandro Serra, non vi è nessuna forzatura, tutto è simbiotico con l’originale, ben presto ci si rende conto che questa lettura ha fatto scoprire identità che mai erano venute in mente, un’opera che dei fantasmi e del mondo onirico isolano che prende a piè pari per creare una magia coinvolgente. La scommessa di trasferire dalla Scozia medioevale a una Sardegna senza tempo, identificabile nella Barbagia fatta di drammatica natura, è stata difficile da vincere, ma il grosso sforzo è stato riconosciuto tanto da fare ottenere al lavoro il Premio Ubu 2017 come Spettacolo dell’anno e vincitore del Premio della Critica Teatrale. Come nella migliore tradizione del teatro shakespeariano, Serra ha affidato i ruoli femminili ad attori uomini senza mai utilizzare costumi o ‘vezzi’ femminili (ne è la riprova all’inizio l’altissima fanciulla con folta barba). Nell’oscurità che sottolinea ogni momento, la recitazione tende ad evidenziare momenti della comunità nuragica, con le sue forti emozioni e la capacità di sentirsi simbiotica attraverso i rudi rapporti con una lingua spigolosa e quasi molesta la cui nascita si perde nella notte dei tempi. I pochi dialoghi vengono sottotitolati ma, tutto sommato, poco interessa di cosa venga detto: l’importante è come vengono recitati. Tutto è simbiosi di voci, suoni, movimenti solenni con trottole viventi che non trovano pace spostandosi qua e là nel palcoscenico, limite dell’azione visibile: ma ogni cosa prosegue anche quando non è più davanti agli occhi dello spettatore, percepita come momento di ulteriore dramma. Giovanni Carroni, lui stesso tra gli interpreti, non si è limitato a tradurre in lingua sarda il testo, lo ha trasformato in un lavoro in cui le sonorità sono le vere protagoniste. Sullo sfondo della scena una enorme lastra metallica che rende tangibile lo spazio del palcoscenico e crea una specie di linea di demarcazione tra il mondo degli umani e la mitologia: anche questa è una creazione di Alessandro Serra che ha dato vita a questo sogno ‘impossibile’ del Macbettu scrivendolo ma anche dirigendolo, occupandosi in prima persona di luci, scene, costumi. Straordinaria la prova del napoletano Leonardo Capuano più sardo dei sardi, regista e autore lui stesso, che ha saputo creare le giuste atmosfere con una recitazione in cui la voce è uno strumento che utilizza ANCHE per dire alcune battute: è quasi impossibile riconoscerlo come Adriano Riva in CentoVetrine ed Edoardo Monforte nella fiction Le tre rose di Eva.