I veri protagonisti di Parasite del coreano Bong Joon-ho sono gli appartamenti in cui vivono i protagonisti. Miserabile e interrato quello della famiglia Ki-woo, pieno di scarafaggi e con un bagno che dire surreale è poco, in cui vivono padre, madre, figlia ventenne e figlio diciottenne, contro la villa futurista abitata dalla famiglia del ricco Park, un padre dirigente d’azienda, una madre che idolatra qualsiasi cosa venga dagli Stati Uniti e un figlio piccolo, capriccioso che la madre considera un artista in erba.
Sono i rappresentanti di due classi sociali contrapposte, in mezzo a loro si colloca l’anziana governante, ereditata dal precedente proprietario, che nasconde in un labirinto, edificato sotto la parte visibile, il marito che deve nascondersi per sfuggire ai creditori. Questa seconda casa è la chiave di volta per comprendere a fondo il film. La parte nascosta è stata costruita per fungere da rifugio in caso di guerra, ma anche per consentire ai proprietari della villa si sfuggire ai creditori o agli agenti del fisco. Nasce qui la prima differenza fra i due gruppi familiari con i poveri che tentano di sottrarsi alla fame e alla miseria e i secondi che potrebbero anche nascondersi nel sottosuolo per evadere i loro impegni sociali. Due gruppi che ben identificano una società spaccata in da un’ingiusta divisione della ricchezza, uno squilibrio che sfocia fatalmente in un massacro efferato (la rivoluzione?) che lascia sul terreno vari morti accoltellati o trafitti da spiedi preparati per una festa che mai si farà. Questo un film che ha ottenuto numerosi riconoscimenti i maggiori dei quali sono tre premi Oscar (film, sceneggiatura, regia) e la Pama d’oro al Festival di Cannes. Ciò che più risalta è l’ abilità del regista di mescolare osservazioni politiche in una storia che può essere letta sia come metafora sia come racconto in sé autonomo.