Da un best seller in Italia poco noto, Destin Daniel Cretton crea un lungo film decoroso e ben recitato ma che non riesce mai a coinvolgere completamente per la incapacità di raccontare con un minimo di originalità ed interesse una storia che si risolve essere una family comedy come tante.
Eppure. alla base c’era una vicenda vera, vissuta in prima persona dalla giornalista Jeannette Walls. Senza contare che la drammaticità di una storia in cui i protagonisti sono bambini, poi divenuti ragazzi e adulti, poteva essere una base perfetta per qualcosa di più interessante. I dialoghi sono sussurrati (a tratti quantomeno nell’edizione italiana si ha difficoltà ad intendere quello che viene detto) o urlati (il padre si esprime quasi sempre con vigore) non dando intensità a una sceneggiatura, peraltro deficitaria, cui ha contributo anche il regista. L’altro autore, Andrew Lanham, prima di questo aveva solo firmato il mediocre The Shack (2017) diretto da Stuart Hazeldine e mai uscito in Italia. La scelta è stata quella di raccontare di una donna di successo che sta per sposare un ricco mediatore finanziario ed entrare nell’alta borghesia, ma si scontra coi suoi ricordi e rischia di perdere la felicità a causa della scomoda presenza dei genitori trasferitisi a New York per vegliare (alla loro maniera, ovvio) sui figli, dimostrandosi particolarmente ingombranti e incapaci di raffrontarsi con altri che hanno fatto una diversa scelta di vita: sono convinti e difendono ad oltranza un modo particolare di interpretare l’esistenza non valutando che potrebbero essere loro dalla parte del torto. La donna tenta di affrontare i ricordi di quando era bambina e adolescente per fare pace col passato, cercando di perdonare gli inesistenti genitori che non li mandavano a scuola, li facevano sopravvivere e nulla più, ma erano in grado di donare loro sogni ed una certa genialità. Valutati con metro tradizionale, erano nocivi a sé stessi ed alla loro prole, ma forse Jeannette Walls non sarebbe divenuta quello che è se non avesse avuto loro a accudirla. Durante i titoli di coda vengono proposte immagini della scrittrice assieme alla madre, quasi a volere dire che tutto quanto fino a quel momento visto era vero (o veritiero). Queste scene poco aggiungono a quanto narrato e, anzi, riducono ancora più decisamente il dramma alla dimensione di un melodramma. Ci sono alcune scene bene girate, ma sono difficili da ricordare soffocate come sono dalla piattezza delle altre. Tra tutte, il modo di insegnare il nuoto del padre alla figlia: lei non si stacca mai dal bordo della piscina e si sente quasi protetta dalla presenza del genitore che, invece, la lancia in aria facendola ricadere in acqua col rischio di annegare. È il suo modo per infonderle fiducia o traumatizzarla per tutta la vita. Per una sequenza riuscita ce ne sono tante da dimenticare, ad esempio il momento in cui la figlia va al capezzale del padre morente. Il film si occupa soprattutto dell’infanzia nomade e travagliata di quattro fratelli che crescono con una madre immatura, più attenta agli scorci da dipingere che alle necessità dei figli, e un padre affettuoso che si getta però in progetti sconclusionati e si rifugia nell'alcool. L'immaginario castello di vetro, che promette un giorno di costruire per loro, diventa simbolo dei fallimenti e delle promesse infrante ma anche dei guizzi della follia e dell'immaginazione.