Festival di Setubal 2008

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Festival di Setubal 2008
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I premi
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sito ufficiale: http://www.festroia.pt/
ImageIl Delfino d’Oro, massimo premio del Festival del cinema di Troia che si tiene da 24 anni nella cittadina portoghese di Setubal, questa volta ha preso la strada della Repubblica Ceca. Merito di Jan Svěrák, autore di Vratné lahve (Vuoti a rendere) cosceneggiato e interpretato dal padre Zdeněk. Operazione che ripropone il sodalizio familiare che è stato alla base del successo (Premio Oscar per il miglior film straniero) di Kolya (1996). Anche in questo caso gran parte del peso grava sulle spalle dell’anziano attore, capace, con la sua ironia di far accettare anche le soluzioni meno felici. Il film, di cui abbiamo parlato anche in occasione del Festival di Karlovy Vary, ruota attorno alla figura di un insegnante in pensione che non vuole farsi da parte e cerca di continuare a svolgere una vita attiva.
Vuoti a rendere
Vuoti a rendere
Se la scuola non lo interessa più, visto che sono gli alunni a comandare con la loro ignorante arroganza, allora cercherà qualche altra cosa. Prova come ciclista addetto alle consegne di pacchi e lettere, ma il fisico non lo regge. Meglio il ritiro delle bottiglie vuote in un piccolo supermercato. L’incarico gli consente il contatto con un’umanità sola e alla ricerca di calore umano, forse solo di uno scambio di battute cordiali. In casa le cose non vanno bene, la moglie, un’ex - insegnante di tedesco, soffre l’indifferenza del marito e il procedere degli anni. Quando sembra che tutto debba precipitare - nel supermercato non c’è più posto per lui visto che è arrivata una macchina per la consegna dei vuoti - un colpo di fantasia durante una gita a sorpresa organizzata in occasione del quarantesimo anniversario di matrimonio, metterà le cose a posto. Finale ottimistico per un film costantemente in bilico fra melanconia ed ironia e che ha i momenti migliori nelle fantasie erotiche del protagonista che non accetta il declino sessuale della vecchiaia. Nel film non tutto è di prima mano e ci sono ripetizioni nella parte del lavoro al supermercato, ma, nel complesso, scorre e si fa apprezzare per quel misto di tristezza e comicità che la innerva.
La classe
La classe
Visto e premiato a Karlovy Vary, precisamente nella sezione East of West, anche Klass (La classe, 2007) dell’estone Ilmar Raag che qui ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria. Come Elephant (2003) di Gus Van Sant e Bowling for Columbine (2002) di Michael Moore il regista s’ispira alla strage compiuta, il 20 aprile 1999, da Eric Harris (18 anni) e Dylan Klebold (17 anni) che uccisero 12 persone, fra ragazzi e insegnanti, sparando a caso nella mensa del liceo di Columbine, nella Contea di Jefferson, in Colorado. Lo sguardo del cineasta estone è diverso da quello dei colleghi americani. Qui il massacro ha un tono di vendetta, quasi giustificata, alla persecuzione che i compagni di classe infliggono a Joosep, diventato uno zimbello dell’intera classe solo perché timido e ben curato nel vestire. Non serve al poveretto la protezione di Kaspar, il solo che lo difende e che finirà per subire gli stessi soprusi. I due, armati con pistole e fucile entrano nella scuola e compiono una strage. Il più maltrattato si ucciderà, mentre non sappiamo che cosa farà il compagno, che il finale ci mostra indeciso se spararsi o continuare a vivere. L’opera è percorsa da una forte tensione ed è un documento terribile di denuncia della violenza giovanile. Lo stile con cui è girato non ha nulla a che fare con la freddezza con cui Gus van Sant guarda ai protagonisti, come insetti da studiare al microscopio, né all’impeto politico che sorregge il film di Michael Moore. E’, piuttosto, una radiografia delle conseguenze psicologiche di una violenza continuata e immotivata. Un dato particolarmente agghiacciante si coglie nello sguardo con cui le compagne di classe seguono violenze e ingiurie: un coro apparentemente inerte, in realtà complice. Il film e’ costruito molto bene e teso al punto giusto

L'ate del pensiero negativo
L'arte del pensiero negativo
Sempre in tema di opere premiate al festival ceco, edizione 2007, c’è da ricordare anche Kunsten å tenke negativt (L’arte del pensiero negativo) lungometraggio d’esordio del norvegese Bard Breien, la cui verve pencola verso la commedia nera. In questo caso il lacerante dramma di tre persone costrette in carrozzella, due delle quali affidate ad una psicoterapeuta convinta che tutte le difficoltà possano essere superate con l’ottimismo e il pensiero positivo. Quando il gruppo incontra un trentacinquenne, handicappato a seguito di un incidente d’auto, che riesce a sopravvivere solo facendo ricorso ad una rabbia, profonda e inarrestabile, le cose precipitano, sin quasi a sfiorare nuove tragedie. In altre parole siamo davanti ad uno sberleffo che mira a far emergere il grottesco anche dalle situazioni più tragiche. L’invito di fondo è all’accettazione della realtà, indipendentemente da qualsiasi mascheramento lieto. Meglio la consapevolezza di ciò che si è che la falsa coscienza indotta da forme di autoconsolazione. Sicuramente l’intento è lodevole, anche se il film eccede in una verbosità falsamente irriverente che ne compromette parte delle possibilità di riuscita.
La trappola
La trappola
Anche il riconoscimento alla migliore regia, assegnato al belgradese Srdan Golubovic che ha firmato Klopka (La trappola), non ha molto convinto. Il film ci riporta alla tragica transizione dalla Jugoslavia alla Serbia di oggi. Un capocantiere, che lavora per un’azienda pubblica sull’orlo del fallimento, ha un figlio affetto da una grave disfunzione cardiaca che può essere operata solo in Germania. Per l’intervento servono 26 mila euro che lui non ha. Fallite tutte le strade possibili - prestito bancário, vendita delle cose di un minimo valore possedute da lui e dalla moglie, richiesta di soldi ad amici e parenti – una possibile soluzione si presenta nei panni di un misterioso e mefistofelico signore che offre l’intera somma in cambio dell’uccisione di un concorrente in non meglio precisati loschi affari. Concluso il contratto ed eseguito l’omicidio, il mandante scompare senza saldare quanto promesso. Inizia cosi la disperata corsa alla ricerca del committente che si rivelerà, a sua volta, un miserabile privo di risorse. Al padre infelice non rimarrà altra strada che esporsi alla vendetta degli amici dell’ucciso, la cui vedova si fará carico del denaro necessário a far operare il piccolo. Il film segue il filone, molto frequentato del cinema serbo, di denuncia dei guasti della liberalizzazione forzata e della presa del potere dell’affarismo più losco. Non ci sono molte novità di linguaggio o costruzione drammaturgiaca, ma le intenzioni sono lodevoli e il racconto riesce a mantenere una sua efficacia per l’intero scorrere del film.

Ghiaccio neroIl premio riservato alla migliore interpretazione femminile è andato ex–aequo, alle finlandesi Outi Maenpaa e Ria Kataja interpreti di Musta jää (Ghiaccio Nero) di Petri Kotwica che prosegue la radiografia dei rapporti familiari complessi avviata, positivamente, in Koti-ikävä (Malessere familiare, 2005) in cui si analizzavano i rapporti fra un giovane introverso sino all’autismo e la madre eccessivamente protettiva. In questo caso sono di scena due professionisti benestanti - lei e’ una ginecologa, lui un architetto di successo – la cui unione entra in crisi, quando la moglie scopre che il marito ha una relazione con una praticante dello studio di cui è proprietario. Si separano, ma lei cova la vendetta: senza farsi riconoscere diventa amica della rivale e la induce a comportamenti che spingono l’uomo, che nel frattempo ha iniziato un’altra relazione, ad abbandonarla per ritornare fra le braccia della moglie. Il destino, cinico e baro, macchinerà affinché sia lei a salvare la vita all’altra, quando questa, incinta, rischierà di morire per un parto prematuro. Il film è assai meno interessante di quanto promette, la regia batte vecchie strade, offre soluzioni scarsamente convincenti, taglia le psicologie con l’accetta, ma l’interpretazione femminile è davvero di prim’ordine.
Va tutto beneSul versante della recitazione maschile è stato coronato il polacco Tomasz Wiszniewski interprete di Wszystko bedzie dobrze (Va tutto bene) in cui Tomasz Wiszviewski racconta la storia edificante di un ragazzino, bravo maratoneta, che decide di correre dal villaggio in cui abita sino al santuario della Madonna Nera di Czestochowa per implorare la grazia per la madre, ammalata terminale di cancro. Gli è compagno e guida il suo professore di educazione fisica, interpretato dal premiato, un ubriacone inveterato che alla fine del tragitto sembra momentaneamente incline ad una momentanea redenzione. Il tutto ritorna daccapo con la morte dell’ammalata e il ritorno dell’insegnante all’amore per la bottiglia. E’ un film edificante, molto ripetitivo, moraleggiante anche se non privo di un certo spirito nero nei confronti dei miracoli invocati con tanta passione, ma non realizzati.
Inquieto
Inquieto
L’israeliano Amos Kollek ha ricevuto il premio riservato alla migliore sceneggiatura per Hasar menuha (Inquieto) ed è un peccato perché si tratta di un’opera che meritava molto di più. Il regista, che è uno dei cineasti più noti del suo paese, costruisce un ritratto preciso e doloroso di un poeta che vive a New York campando con piccoli commerci, qualche truffa e molta miséria. E’ un bel ritratto della diaspora ebraica e del conflitto fra chi è rimasto – il figlio tiratore scelto dell’esercito israeliano e responsabile della morte di numerosi terroristi palestinesi – e chi se n’è andato non riuscendo più a sopportare le laceranti contraddizioni in cui è immerso il suo popolo. Poeta maledetto, odiato e ammirato da una parte dello stesso pubblico ebraico – americano, Moshe vive in un’atmosfera notturna, buona parte del film è ambientato nel fumoso bar in cui recita alternandosi a musicisti jazz, che ben simboleggia il baratro in cui è precipitata la sua vita. Persino il finale - con la riconciliazione, forse provvisoria, forse reale con il figlio - ha un tono più funereo che liberatorio. Un film forte e molto bello.

Sirena
Sirena
La fotografia di Rusalka (Sirena) della russa Anna Melikyan è stata giudicata la migliore fra quelle dei film in concorso. Riconoscimento difficilmente condivisibile che, per giunta premia un testo dai tratti piuttosto grossolani che rimastica un mondo poetico consunto e ripetitivo. La storia ha al centro l’infanzia e la giovinezza di una giovane che ha la dote di far realizzare i sogni, suoi e di altri. Si parte da, quando ancora bambina, sogna di rivedere il padre, di cui la madre neppure ricorda il nome, sino al compimento della maggiore età e alla storia d’amore con un imbroglione di successo - vende lotti fabbricabili sulla luna – di cui si innamora e che lui tratta come una domestica, sino al finale favolistico – surreale in cui lei muore per, forse, ritornare in vita sotto altra forma. Un pasticcio pseudopoetico.
Estrellita
Estrellita
Agli spettatori della manifestazione è molto piaciuto Estrellita (2007) dello sloveno Metod Pevec, un melodrammone decisamente grezzo che ruota attorno ad un costoso violino, chiamato Estrellita, che la vedova di un musicista morto nel fiore degli anni presta ad un giovane bosniaco del quale ha colto le straordinarie qualità musicali. Il film e’ costellato di personaggi presi di peso da altri film, come il padre zingaro ubriacone e violento, la giovanissima pianista solidale con il genio precoce, la scoperta, da parte della vedova, dell’infedeltà del marito. Anche le immagini sembrano uscire, per qualità del colore e piazzamento della macchina da presa, da film di trenta anni or sono. Senza contare i numerosi buchi di cui e’ costellata la sceneggiatura, il forzato lieto fine e la modéstia degli interpreti. In poche parole un’opera da dimenticare.
ImageDa passare rapidamente all’archivio anche Rezerwat (Preservare) del polacco Lukasz Palkowski, premiato quale migliore opera prima e Mirush del norvegese Marius Holst scelto dalla giuria dei critici dedicanti dalla FIPRESCI (Federation  Internationale de la Presse Cinématographique). Il primo racconta il rapporto, difficile sin dall’inizio, fra un ragazzino di strada e un fotoFédération Internationale de la Presse grafo chiamato a fare un servizio su un vecchio e diruto quartiere di Varsavia. Lo scopo del committente, un costruttore che ha acquistato vari immobili in quella parte della città, è dimostrare il degrado di queste vecchie case e delle persone che le abitano, in modo da giustificare sfratti e abbattimenti. In realtà il ragazzino, rubando la macchina fotográfica del professionista, realizzerà una serie d’immagini che, presentate come se fossero state fatte dal fotografo, convinceranno l’affarista a restaurare le vecchie case anziché abbatterle. Un film pieno di buone intenzioni e di sentimenti melensi che si piazza a mezza strada fra l’opera edificante destinata ad un pubblico giovanile e il film di (blanda) denuncia sociale. Qualche sequenza di taglio moderno, quasi videoclipparo, non salvano l’opera da un senso di già visto.
Mirush
Mirush
Mirush è il nome di un quindicenne kossovaro che abbandona la madre per andare a cercare il padre che, emigrato in Norvegia molti anni prima, non ha più dato notizia di sé. Lo incontra che gestisce un ristorante, succube e in combutta con la mafia albanese. Quando il genitore scoprirà chi è il ragazzino che ha assunto per fare le pulizie, si stabilirà fra i due un legame che sembra promettente e che porta l’adulto, molto ben interpretato dal nostro Enrico Lo Verso, ad uccidere uno dei malavitosi per proteggere il ragazzo dalle conseguenze di un furto. Per tutta ricompensa il giovane lo denuncia ai banditi che lo uccidono. L’ultima immagine ci mostra Mirush che ritorna fra le braccia della madre. Difficile capire il senso dell’intera operazione, tenuto conto, anche, della modestia stilistica che segna l’intero racconto.

Ladri
Fra gli altri film in concorso vale la pena segnalare Ladrones (Ladri) dello spagnolo Jaime Marques che ha un bel taglio realistico e racconta una storia abbastanza originale. Sin da piccolo Alex ha aiutato la madre a borseggiare i viaggiatori del metro, finito in collegio dopo l’arresto della mamma e del complice, ne esce al compimento della maggiore età e, dopo un breve impiego come parrucchiere, mette a frutto le cose imparate sin da piccino svuotando le tasche a passanti e viaggiatori. Un giorno incontra Sara, una ragazza di buona famiglia che ruba CD in un supermercato, l’aiuta a sottrarsi ai controlli ed istaura con lei un sodalizio criminale e sentimentale ad un tempo. Nel corso di un borseggio su ordinazione, lei è scoperta e lui l’aiuta anziché fuggire. Finale tragico, degno della classica storia basata su un amore puro, ma impossibile. Il film è girato molto bene, gli interpreti sono credibili e si gusta dalla prima all’ultima immagine, anche per l’equilibrata miscela fra romantico, sociale e tragico.
Stranieri
Stranieri
Amori impossibili anche in Zarim (Stranieri) di Erez Tadmor e Guy Nattiv. E’ il classico film sul contrasto fra ebrei e palestinesi destinato a risolversi, almeno apparentemente, in una storia sentimentale. Semi e Rana s’incontrano e si amano a Berlino, nella festosa atmosfera dei campionati mondiali di calcio del 2006. Finita la festa, ritornati ciascuno alla propria vita – lei come madre single che vive clandestinamente a Parigi, lui come appartenente ad un kibbutz – le loro strade s’intrecciano nuovamente e si chiudono o aprono, entrambe le possibilità sono adombrate, in un finale che vede esplodere la seconda guerra libanese per opera dell’armata israeliana. Il film e girato sobriamente, con pochi mezzi e molta buona volontà. Gli interpreti sono bravi, anche se Patrick Albenque non e sempre all’altezza della complessità del personaggio. In definitiva un film di buon livello anche se non eccezionale.
Un mondo a parte
Un mondo a parte
Particolarmente interessante To verdener (Un mondo a parte) del danese Niels Arden Oplev che muove da una storia vera per affrontare il mondo delle sette, in particolare quella dei Testimoni di Geova. La giovane Sara vive in una famiglia di adepti di questa setta, ne rispetta tutte le proibizioni sino a che incontra, innamorandosene, Teis che la sottrae, fra mille difficoltà all’influenza dei parenti. Soggetta a continue vessazioni da parte degli anziani della chiesa da cui si è staccata, ripudiata dai parenti, non avrà altra scelta che cambiare città e dedicarsi all’insegnamento in una struttura laica. Il film e’ ben costruito, anche se con molte ripetizioni, e affronta un tema di grande importanza, quello del fanatismo cristiano. La storia funziona anche grazie alla bravura degli interpreti, prima fra tutti Rosalinde Mynster, e ci consegna un panorama più inquietante di quello dell’integralismo islamico. Lo stile segue un processo narrativo lineare, da cinema classico. Proprio per questo consente allo spettatore di capire a fondo la mostruosità di ciò cui sta assistendo. Le hanno ben colte i giurati del Premio Signis, organizzazione ecumenica delle chiese cristiane, che gli hanno attribuito il loro premio.
In nome di Dio
In nome di Dio
Sempre in tema di estremismo religioso da segnalare Khuda Ke Liye (In nome di Dio), primo lungometraggio del pakistano Shoaib Mansoor, uno degli uomini più famosi nel mondo dello spettacolo del suo paese. Vi si racconta la storia di una ragazza, nata in Inghilterra da una famiglia d’origine pakistana, che il padre attira con un pretesto nel paese asiatico per darla in sposa forzata ad un ex – cantante convertitosi all’Islam più fanatico. La poveretta finisce prigioniera di una famiglia che vive sul confine con l’Afghanistan, subisce la violenza del marito, gli da un figlio e tenta invano di fuggire. Solo l’arrivo provvidenziale dell’esercito pakistano, mosso da una lettera disperata che lei e’ riuscita a far arrivare al fidanzato inglese, porterà alla sua liberazione e al processo contro gli integralisti. Processo che lei vincerà grazie all’intervento di un famoso teologo islamico, dotto e moderato, contrario ad ogni forma di fanatismo. A questo punto sarà lei a decidere di rimanere a Lahore per lottare assieme alle altre donne per ottenere liberà e diritti. Il film, che ha ricevuto numerosi premi fra cui la Piramide d’Oro dell’ultimo Festival de Il Cairo, ha un taglio nettamente didattico e sociale, anche se non mancano alcune cadute di regime come l’esaltazione del ruolo salvifico dell’esercito pakistano o la santificazione dei teologi mussulmani moderati. Stilisticamente non si discosta da altri film che denunciano l’oppressione sulle donne con attenzione più al valore sociale dei temi affrontati che alla novità o anche solo la purezza del linguaggio cinematografico.

Gli uccelli non possono volare
Gli uccelli non possono volare
La scenografia di The Bird Can’t Fly (Gli uccelli non possono volare, 2008) dell’olandese Threes Anna è piuttosto originale. Melody, chef di successo nei Paesi Bassi, ritorna in Africa, nel Fairlands, in occasione del funerale della sorella che non vedeva da anni e della quale non aveva più notizie da tempo. Giunta in una paesino semisommerso dalla sabbia portata dalle tempeste desertiche, scopre di avere un nipote meticcio che l’accoglie con aperta avversione. Il piccolo non vuole abbandonare la landa in cui vive per continuare il progetto iniziato dalla madre: costruire un allevamento di struzzi. Il film ruota attorno allo scontro fra la matura zitella e il piccolo ribelle, con un crescendo di tensione che si risolverà solo nel pieno di una nuova tempesta di sabbia che coprirà ancor più ciò che rimane del villaggio. La storia è raccontata con passione e il film ha un andamento abbastanza convincente. Il paesaggio desértico – un vero parco naturale sudafricano – costituisce l’attrattiva maggiore dell’opera che, quanto a tematica e stile, pesca a piene mani da situazioni e titoli già noti.
Assolto
Assolto
Decisamente interessante anche Freigesprochen (Assolto) che l’austriaco Peter Payer ha liberamente tratto da Der Jüngste Tag (Il giorno del giudizio1937), ultimo testo teatrale scritto dal drammaturgo ungherese Ödön von Horvath (1901 – 1938). Il tema è quello della responsabilità di chi, preposto ad una funzione da cui dipende la vita di altri, si distrae e causa una tragedia. L’azione e’ riportata ai giorni nostri e ha al centro un capostazione incaricato dello smistamento dei treni dalla cabina di controllo della stazione di Himmelstal. Il giorno in cui un concatenarsi di eventi causa l’aumento dei convogli in circolazione, il funzionario si distrae pochi secondi per baciare una ragazza, da tempo innamorata di lui, che si e’ introdotta di soppiatto nella cabina di controllo. Quei pochi attimi sono sufficienti a causare un disastro: un veicolo per la consegna del latte, guidato da un amico del controllore, attraversa i binari mentre arriva il treno Budapest - Parigi a grande velocità. Scontro e deragliamento con 22 morti e moltissimi feriti. Arrestato e processato, il ferroviere è assolto in quanto mancano le prove della sua responsabilità, questo nonostante la testimonianza di sua moglie, che lo aveva visto mentre baciava la ragazza. La decisione della corte non lenisce il senso di colpa dell’uomo e della giovane, che finiscono col suicidarsi entrambi. Al centro del film c’è il peso morale che attanaglia chi è risparmiato dalla giustizia legale, ma sa di essere colpevole. E’ un tema tipico della cultura protestante, che non ammette né confessione né assoluzione e carica sulla coscienza dell’individuo la responsabilità di ciò che si è fatto. Il film e’ estremamente ben costruito, anche se a tratti palesa l’origine teatrale della sceneggiatura.
Volti nascosti
Volti nascosti
Antichi, terribili costumi sono al centro di Sakli Yüzeler (Volti nascosti), opera terza della regista turca Hendan İpekçi. Il film intreccia tempi e ambienti in modo non sempre lineare. Si parte dalla Germania di oggi dove, nella vasta comunità turca, vive un gruppo familiare guidato da una donna autoritaria e rispettata, che guarda con diffidenza ad un parente divenuto capo di una banda di criminali. Sarà proprio questo boss ad innescare la tragedia, quando scoprirà che è ancora viva la nipote, che credeva di aver ucciso perché colpevole di essere rimasta incinta senza essere sposata. Per cancellare l’onta che, a suo dire, incrina la rispettabilità del clan decide di mettersi in caccia della sopravvissuta. Solo che dietro a tutta la vicenda c’è un documentarista che ha girato un film in cui è raccolta la testimonianza della sopravvissuta ed ora vuole proseguire il discorso girando il seguito della storia. L’intreccio narrativo non è chiarissimo e mescola verità e finzione, passato e presente per approdare ad un finale di tipico inseguimento poliziesco in cui i buoni tentano di arrivare prima dei cattivi a salvare la vittima. L’intento è la denuncia della vergognosa tradizione che guarda con favore ai delitti d’onore, crimini che in Turchia, come nell’Italia di quaranta anni or sono, vedono i giudici infliggere pene minime a chi uccide per vendicarsi di adulteri o offese morali. Una didascalia finale ci informa che le cose stanno cambiando e che nuove leggi sono state emanate per adeguare le pene alla gravità dei reati. L’operazione ricorda quella di cui è stato protagonista molto cinema italiano degli anni cinquanta: utilizzare moduli narrativi codificati, in questo caso il poliziesco, per veicolare tesi socialmente rilevanti. Nel caso specifico un ostacolo alla piena riuscita dell’operazione è la complessità della struttura prescelta, un groviglio di piani narrativi che in molti punti rendono difficile la comprensione del discorso. Come dire molta buona volontà per un risultato parziale.

Polaroid urbane
Polaroid urbane
Ci sono stati, poi, due titoli che vanno segnalati solo al fine di evitarne la visione. Polaróides Urbanas (Polaroid urbane, 2008) del brasiliano Miguel Falabella è tratto dalla commedia di successo da lui stesso scritta e messa in scena, Como Encher um Biquíni Selvagem (Come indossare un bikini selvaggio). E’ una serie di scene, siparietti e storielle assurde che dovrebbe dare uno sguardo, lucido e cinico sulla vita dei nostri giorni. Gran parte del pubblico di lingua portoghese ha apprezzato battute e situazioni che sono risultate quasi incomprensibili per gli altri spettatori. In ogni caso poco più che la messa in film di un testo pensato per il palcoscenico, senza eccessiva fantasia stilistica o inventiva realmente cinematografica. Megalopolis, della russa Ella Arkhangelaskaya è un film falso e sbagliato. Falso perché affronta un tema grave e difficile come quello delle bande di ragazzini che scorrazzano per le strade di Mosca rubando e rapinando adulti e coetanei, ma lo fa rappresentando questi piccoli delinquenti come degli indossatori appena scesi da una qualche sfilata di moda infantile con tanto di visi puliti pettinature impeccabili, abiti casual, ma di confezione sfacciatamente modaiola. E’ un film sbagliato perché mette questo mondo, orribile e tragico, al servizio di una storia d’amore materno – una giovane cui hanno sottratto il figlio lo cerca disperatamente con l’aiuto di un compagno occasionale, virile e risoluto – senza preoccuparsi minimamente di inquadrare il discorso in un ambito appena più ampio del melodramma convenzionale.
Katyn
Katyn
Chiudiamo con qualche riflessione sul film che ha aperto il festival: Katyn di Andrzej Wajda, un’opera che ha suscitato accese discussioni e che ha ricevuto molti premi in patria. L’opera rievoca il massacro, compiuto fra il marzo e il maggio del 1940, quando i sovietici giustiziarono, con un colpo alla nuca, più di 22 mila prigionieri di guerra, in prevalenza ufficiali in una foresta non lontana dalla cittadina russa di Smolensk. La prima notizia del massacro fu data, nella primavera del 1943, dalla radio nazista suscitando le ire del Cremlino che ribaltò l’accusa sui tedeschi. Finita la guerra, passata la Polonia nell’area d’influenza sovietica, la versione ufficiale continuò ad essere quella di un crimine nazista, questo sino alla dissoluzione dell’URSS e all’apertura degli archivi segreti del regime da cui emerse, senza ombra di dubbio, la volontà di Stalin di annientare ogni possibile rinascita dell’armata polacca in funzione antirussa. La strage era stata resa possibile dalla stipula del famigerato patto, stretto il 23 agosto 1939, fra i due regimi, accordo formalmente definito di non aggressione e passato alla storia con il nome dei due ministri degli esteri che lo avevano firmato: il tedesco Joachin von Ribbentrop e il soviético Vjačeslav Michajlovič Molotov. Pochi mesi dopo, nel settembre, le truppe tedesche attaccarono la Polonia da occidente, mentre quelle sovietiche vi entravano da oriente, dando vita ad una spartizione destinata a finire solo con lo scoppio, nel 1940, della seconda guerra mondiale e con l’alleanza fra l’URSS e i paesi occidentali.
Katyn
Katyn
Andrzej Wajda, classe 1926, sì e ricordato della sua antica sensibilità storico – civile, quella che lo aveva portato a firmare Czlowiek z marmuru (L’uomo di marmo, 1977) e Czlowiek z zelaza (L’uomo di ferro, 1981) in pieno travaglio del regime realsocialista, pochi mesi prima della rivoluzione di Solidarnosc (fondata nel settembre 1980), nel ricostruire la strage dei prigionieri polacchi con un racconto a mosaico che parte dall’attesa e dalle sofferenze della moglie di uno dei prigionieri, alternandole con il calvario del marito, dalla prigionia alla morte. Un grande disegno in cui trova posto anche la tragica esperienza di un altro ufficiale, compagno d’armi dell’ucciso, che è risparmiato dai sovietici per farne un quadro della polizia politica che sorreggerà il regime postbellico. Dilaniato dai rimorsi finirà col suicidarsi dopo aver tentato di annegare nell’alcol i sensi di colpa. E’ il classico film a grande schermo, anche se la mano della produzione televisiva pesa in non pochi momenti con il privilegio di immagini di primi e primissimi piani. Questo taglio obbliga la regia, che ha preso spunto dal libro Post mortem di Andrzej Mularczyk, a prese di posizione nette, prive di qualsiasi sfumatura analitica. La decisione sovietica, ad esempio, è presentata quasi come un piano criminale ordito da un gruppo di pazzi, laddove si è trattato di un disegno, orribile e criminoso, ma ispirato ad una precisa scelta politica volta alla cancellazione di una qualsiasi forma di pericolo futuro. Questa circostanza rende ancor più feroce e odioso l’operato degli uomini della polizia politica, ma ne motiva anche l’agire in termini di crudele, disumana razionalità.
Fografia delle salme esumate dalle fosse comuni scoperte nella foresta di Katyn
Le salme esumate
Un dato efficacemente positivo, anche da un punto di vista narrativo, è l’abilità con cui il regista inserisce, nel racconto, agghiaccianti brani di cineattualità sulle esumazioni delle salme, volta a volta da parte di nazisti e sovietici, con reciproca attribuzione scientifica delle responsabilità dell’eccidio agli uni o agli altri. In ogni caso un film da vedere per ricordare quanto è affollata e terribile la lista dei crimini che abbiamo alle spalle e quanto debba essere ferma la volontà che si cancelli ogni possibilità che possano ripetersi.

Vuoti a rendere
Vuoti a rendere

I premi
Delfino d’Oro: VRATNÉ LAHVE (Vuoti a rendere) di Jan Sverák (Repubblica Ceca / Gran Bretagna / Danimarca)
Delfino d’argento – Premio speciale della giuria: KLASS (La classe) di Ilmar Raag (Estonia).
Delfino d’argento per la miglior regia: Srdan Golubovic per KLOPKA (La trappola) (Serbia / Germania / Ungheria).
Delfino d’argento per la migliore interpretazione femminile: ex – aequo Outi Maenpaa e Ria Kataja per MUSTA JÄÄ (Ghiaccio nero) di Petri Kotwica (Finlandia).
Delfino d’argento per la migliore interpretazione maschile: Robert Wieckiewicz per WSZYSTKO BEDZIE BOBRZE (Va tutto bene) (Polonia).
Delfino d’argento per la migliore sceneggiatura: Amos Kollek per HASAR MENUHA (Inquieto) (Israele / Canada / Belgio / Francia / Germania).
Delfino d’argento per la migliore fotografia: Oleg Kirichenko per RUSALKA (Sirena) di Anna Melikyan
Premio del pubblico: ESTRELLITA di Metod Pevec (Slovenia/Germania).
Premio per la sezione L’uomo e il suo ambiente: THE REPLACEMENT CHILD (Il bambino di ricambio) di Justin Lerner (U.S.A.).
menzione speciale: IO, L’ALTRO di Mohsen Melliti (Italia).
Premio della città di Setubal per la sezione Indipendenti Americani: STARTING OUT IN THE EVENING (Accingersi di sera) di Andrew Wagner.
Premio alla migliore opera prima: REZERWAT (Preservare) di Lukasz Palkowski (Polonia).
menzione speciale: WIR SAGEN DU! SCHATZ. (Regole di famiglia) di Marc Meyer (Germania).
Premio della critica - FIPRESCI: MIRUSH di Marius Holst (Norvegia).
Premio Signis: TO VERDENER (Un mondo a parte) di Niels Arden Oplev (Danimarca).
menzione speciale: KLASS (La classe) di Ilmar Raag (Estonia)
Premio Cicae: HASAR MENUHA (Inquieto) di Amos Kollek (Israele/Canada/Belgio/Francia/Germania).
Premio Sapo Videos: BLUE DAWN di João Teotónio, Miguel Trindade, Pedro Kaspar (Portogallo).