Festival di Karlovy Vary 2007

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Festival di Karlovy Vary 2007
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Il Festival di Karlovy Vary, in Repubblica Ceca, ha festeggiato la 42ma edizione con un programma vastissimo di film in concorso, sezioni speciali, omaggi e parti dedicate ai corti e medio metraggi. Diciamo subito che, nel nostro resoconto, escluderemo i film di cui abbiamo già parlato in altre occasioni come Saturno Contro di Ferzan Ozpetek, recensito al momento della sua uscita in Italia, e Dolina dell’ungherese Zoltán Kamondi di cui abbiamo riferito dalla Settimana del cinema Magiaro di Budapest. Il giudizio della giuria internazionale è apparso largamente condivisibile, non a caso, il film vincitore, Mýrin (La città dei barattoli) di Baltasar Kormákur, è quello che ha raccolto i maggiori consensi dei critici. Si tratta di un bel noir, tratto dal romanzo Tainted Blood (Sangue infetto, 2004) di Arnaldur Indridason, che sfrutta appieno il gelido paesaggio islandese. Il regista ha alle spalle una corposa carriera d’attore e produttore, questo è il suo quarto film e, anche questa volta, predilige le storie complesse e con molti personaggi. In realtà mette assieme due vicende. La prima è quella di un poliziotto che, indagando sull’uccisione di un poco di buono, scopre un altro delitto, quello di una bambina di quattro anni assassinata trent’anni prima. L’altra ha al centro un ricercatore statistico che sta indagando sulla trasmissibilità di alcune malattie e che, casualmente, scopre l'omicidio di sua sorella accaduto nel lontano 1974. Il lavoro dell’agente tiene assieme le due storie, con una figura che richiama alcuni personaggi tipici della moderna letteratura poliziesca nordica, come l’ispettore Wallander creato da Mankell Henning, che, a loro volta, hanno forti debiti culturali con i protagonisti dei noir francesi. Nel film ciò che conta non è tanto una storia complessa e ingarbugliata, quanto le atmosfere di degrado e disperazione che circondano i personaggi, facendo da contraltare al lindore degli interni ufficiali (stazioni di polizia, ospedali). Gli interpreti sono perfetti, nella sobrietà con cui attraversano emozioni particolarmente forti. Un solo difetto: la concessione, del tutto discordante con l’insieme dell’opera, ai particolari macabri e alle immagini nauseabonde. Per la cronaca il titolo fa riferimento alla raccolta di parti umane conservate, in barattoli di vetro e formalina, nell’archivio dell’Istituto di Medicina Legale di Reykjavik.

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Miglia felici
Condivisibili anche il premio speciale della giuria e quello per la migliore regia andati, rispettivamente a Lucky Miles (Miglia fortunate, 2007) opera d’esordio dell’australiano Michael James Rowland e a Kunsten å tenke negativt (L’arte del pensiero negativo, 2006) del norvegese Bård Breien. Il primo affronta una delle tante tragedie delle migrazioni. Su una solitaria spiaggia sbracano una ventina di immigrati illegali che scoprono quasi subito di essere stati imbrogliati. Lo scafista, un pescatore indonesiano, li ha lasciati lì dicendo loro che, che appena dietro le dune, c’è una strada su cui passano gli autobus di linea. Le cose non vanno neppure troppo bene al trafficante di vite umane, visto che uno dei membri dell’equipaggio gli incendia accidentalmente il peschereccio e lo costringe a salvarsi a nuoto sulla medesima spiaggia assieme all’altro marinaio. Trasportati e trasportatore si trovano così a vagare, in piccoli gruppi rissosi e disperati, nel deserto, senza cibo né acqua. Sulle loro tracce ci sono sia la polizia di frontiera, sia una pattuglia dell’esercito, scombinata e ben poco professionale. Sono questi uomini delle istituzioni a fornire alcuni fra i maggiori spunti comici tesi ad alleggerire lo spirito drammatico. Possiamo dire che tutto finirà, forse, bene per almeno due personaggi: l’iraniano in fuga dal regime di Saddam Hussein e il cambogiano alla ricerca del padre che vive in Australia. La miscela fra humour e tragedia è abbastanza ben calibrata e la storia prosegue speditamente, anche se non mancano, nonostante si dica che tutto è da storie vere, alcune inverosimiglianze come la rimessa in funzione del rottame di automobile che uno dei gruppi incontra sul suo cammino. Il regista mostra di avere un buon occhio cinematografico, anche se non sembra capace di andare a fondo, cogliendo tutte le sfaccettature delle storie affrontate.
Anche L'arte del pensiero negativo è un film d'esordio di un giovane regista norvegese la cui verve pencola verso la commedia nera. In questo caso il lacerante dramma di tre persone costrette in carrozzella, due delle quali affidate ad una psicoterapeuta convinta che tutte le difficoltà possano essere superate con l'ottimismo e il pensiero positivo. Quando il gruppo incontra un trentacinquenne, handicappato a seguito di un incidente d'auto, che riesce a sopravvivere solo facendo ricorso ad una rabbia, profonda e inarrestabile, le cose precipitano, sin quasi a sfiorare nuove tragedie. In altre parole siamo davanti ad uno sberleffo che mira a far emergere il grottesco anche dalle situazioni più tragiche. L'invito di fondo è all'accettazione della realtà, indipendentemente da qualsiasi mascheramento lieto. Meglio la consapevolezza di ciò che si è alla falsa coscienza indotta da qualsiasi forma di autoconsolazione. Sicuramente lìintento è lodevole, anche se il film eccede in una verbosità falsamente irriverente che ne compromette parte delle possibilità di riuscita.
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Pudore
Da sottoscrivere anche il riconoscimento per l’interpretazione femminile andato a Elvira Mínguez interprete di Pudor (Pudore, 2007), altra opera prima, questa volta a firma dei fratelli David e Tristán Ulloa arrivati al lungometraggio dopo i successi della serie televisiva El Comisario diretta da David e interpretata da Tristán. Lo spunto l’ha offerto un romanzo di Santiago Roncaglielo in cui si raccontano le tragedie che travolgono una famiglia asturiana nell’arco di poche settimane. Il film si apre con la morte della nonna, prosegue con la scoperta che il capofamiglia ha un cancro al cervello che gli lascia solo sei mesi di vita, si va avanti con i tradimenti incrociati, reali e supposti, dei genitori e le turbe erotiche della figliola adolescente, per finire con la caduta da un balcone del figlio minore. Un po’ troppa carne al fuoco, anche se la regia domina la materia con mano ferma. Il pregio maggiore del film nel tratteggio della protagonista, una donna matura che s’inventa un amante per sentirsi ancora viva e desiderata. Intorno a lei ruota, in pratica l’intero film, mentre le figure dei giovani appaiono meno scandagliate. E’ un ritratto di famiglia in un interno che quasi non tiene conto del mondo esterno, focalizzando lo sguardo solo sul microcosmo su cui punta le luci. Il risultato è, complessivamente interessante, soprattutto per la cura dei caratteri di alcuni personaggi.

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Cose semplici

Più equilibrato il rapporto fra attore e valore dell’opera nel caso del riconoscimento al miglior interprete: Sergey Puskepalis, personaggio principale di Prostyje vešči (Cose semplici, 2006) del russo Alexej Popogrebskij. L’opera muove da un’idea tutt’altro che peregrina: quella di mostrare quanto sia difficile la vita per le persone oneste e normali nella Russia d’oggi. Un anestesista, che lavora con scrupolo e accetta solo piccole mance, prassi del tutto normale nel sistema attuale, si trova nei guai finanziari per una serie di piccoli incidenti: gli ritirano la patente perchè ha bevuto un bicchiere di vodka prima di mettersi alla guida, la sua compagna rimane incinta, l’appartamento in cui vive in condominio diventa, a quel punto, insufficiente e bisogna trovarne un altro. Giocoforza accettare nuovi lavori in nero, come quello di somministrare quotidianamente una dose di eroina ad un vecchio attore, malato terminale di cancro. Di cosa in cosa diventa possibile anche il furto di un quadro di valore, che l’anziano ha in casa e gli ha promesso se lui lo aiuterà a morire. Solo la generosità del derubato impedirà esiti catastrofici e tutto andrà a posto, compresa la rappacificazione con la figlia, da tempo andata via di casa, ed ora, anche lei, nella attesa di un figlio. Il finale gronda ottimismo e sigilla la storia con una sorta di morale che sembra voler dire: nonostante le cose siano gravi, tutto finirà per aggiustarsi e la vita trionferà. Il film è girato bene, anche se insiste troppo sulle stesse situazioni; ha momenti forti, come la sequenza iniziale, vista in soggettiva, dell’andata al lavoro con la preparazione del povero pranzo da portarsi dietro e il viaggio fra cortili ingombri d’immondizie, palazzi diruti, strade intasate. E’ il ritratto, valido più di qualsiasi discorso, di una condizione umana degradata e miserabile. Oltre a quella del protagonista da segnalare anche l’interpretazione del grande Leonid Bronĕvoj, nella parte della vecchia gloria in disarmo cui la giuria ha riserbato una delle due menzioni speciali. L’altra è andata all’attore – sceneggiatore Zdeněk Svěrák per il suo contributo alla scrittura di
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Vuoti a rendere
Vratné lahve (Vuoti a rendere, 2007) diretto da suo figlio Jan. Il film ripropone il sodalizio fra padre e figlio che era alla base del successo (Premio Oscar per il miglior film straniero) di Kolya (1996). Anche in questo caso gran parte del peso grava sulle spalle dell’anziano attore, capace, con la sua ironia di far accettare anche le soluzioni meno felici. Qui interpreta un insegnante in pensione che non vuole farsi da parte e cerca di continuare a svolgere una vita attiva. Se la scuola non lo interessa più, visto che sono gli alunni a comandare con la loro ignorante arroganza, allora cercherà qualche cosa d’altro. Prova come ciclista addetto alle consegne di pacchi e lettere, ma il fisico non lo regge. Meglio il ruolo di ritiro delle bottiglie vuote in un piccolo supermercato. L’incarico gli consente il contatto con un’umanità sola e alla ricerca di calore umano, forse solo di uno scambio di battute cordiali. In casa le cose non vanno bene, la moglie, un’ex - insegnante di tedesco, soffre l’indifferenza del marito e il procedere degli anni. Quando sembra che tutto debba precipitare, nel supermercato non c’è più posto per lui visto che è arrivata una macchina per la consegna dei vuoti, un colpo di fantasia durante una gita a sorpresa organizzata in occasione del quarantesimo anniversario di matrimonio, metterà le cose a posto. Finale ottimistico per un film costantemente in bilico fra melanconia ed ironia e che ha i momenti migliori nelle fantasie erotiche del protagonista che non accetta il declino sessuale della vecchiaia. Nel film non tutto è di prima mano e ci sono ripetizioni nella parte del lavoro al supermercato, ma, nel complesso, scorre e si fa apprezzare per quel misto di tristezza e comicità che la innerva.

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Dialogo con il mio giardiniere
I premi non ufficiali (FIPRESCI, SIGNIS, FICC) si sono rivolti, in varia misura, ai film già citati con l’aggiunta di una menzione speciale, da parte della federazione internazionale dei cineclub (FICC) a Dialogue avec mon Jardinier (Dialogo con il mio giardiniere) di Jean Becker, il classico film di qualità francese che si basa su un buon testo, il romanzo omonimo di Henri Cueco, gode di ottimi attori (Daniel Auteuil, Jean-Pierre Darroussin), e si regge su una confezione professionalmente robusta. Racconta una storia non molto originale, ma non manca neppure d’interesse. Un pittore affermato ritorna nella casa di famiglia, lasciata in abbandono da tempo, e assume un anziano ex - ferroviere con l’incarico di rimettere in ordine l’orto e, gradualmente, l’intero edificio. Il film è tutto nella progressiva scoperta che l’artista fa della vita comune e nell’amore per le piccole cose. Una tesi, se si vuole, persino ingenua e coronata da sviluppi prevedibili, come la mostra che il pittore dedica, dopo la morte dell’amico, alle cose d’uso comune da lui usate. Andamenti noti che non compromettono il bilancio di un testo vecchiotto, ma commuovente, tradizionale, ma ben scritto.

Veniamo ora agli altri film in concorso che non hanno ricevuto premi. Karger è un tipico metalmeccanico sulla trentina che ha sempre vissuto in una zona industriale della ex – DDR e che, quasi all’improvviso, è abbandonato dalla moglie e perde il lavoro. Poco servirà l’incontro con una donna disperata quanto lui, l’unica soluzione sarà quella di gettarsi tutto alle spalle ed accettare di andare a lavorare in una fabbrica olandese. Il tema della mancanza di lavoro, nella nazione più ricca d’Europa, era ricco di spunti interessanti, così come quello - non nuovissimo, ma sempre stimolante - dei disastri sociali ed economici causati dalla politica real-socialista. Tuttavia Elke Hauck, regista del film, non ne affronta nessuno, limitandosi ad usarli quali sfondi – pretesto per una storia d’amore esasperato o, se si preferisce, di perdita del senso della vita a seguito dell’abbandono del partner. In questo modo il film perde molte potenzialità e s’incammina sui binari della solita disperazione per mancanza d’amore, un argomento che gli attori, non professionisti, stentano a rendere credibile. Un vero peccato, perché l’ambientazione e il panorama sociale della provincia industriale tedesca lasciavano intuire frutti ben più succosi.
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Piazza del Redentore
Plac Zbawiciela (Piazza del Redentore) di Joanna e Krzysztof Krauze è un drammone familiare che vorrebbe rappresentare anche i guasti causati dall’immersione della società polacca in un capitalismo selvaggio. Bartek, lavoratore in nero di una piccola azienda, e la moglie Beata hanno comperato un appartamento in una casa in costruzione. Nell’attesa sono andati a vivere, assieme ai due figli, con la madre di lui. La convivenza, già difficile, diventa insostenibile, quando il costruttore fallisce, fugge e lascia la banca padrona dell’immobile. Le difficoltà economiche, unite a quelle della coabitazione e al carattere autoritario della padrona di casa, portano allo sfascio della famiglia. Il marito trova una nuova compagna e la donna, anello debole della catena, tenta di uccidere i figli e suicidarsi. Subirà una pesante condanna e rimarrà semiparalizzata. Il film non riesce a rendere emblematica la vicenda, che rimane un caso individuale senza collegarsi in modo significativo al panorama che la circonda. Un’interpretazione non eccezionale e una regia debole e con molte tentazioni televisive - fra i produttori c’è anche la TV polacca - fanno il resto. In definitiva un film ovvio, passabilmente ripetitivo, scontato nello sviluppo e negli esiti.
Pruning the Grapevine (Potando la vite) del sudcoreano Min Boung-hun è un film sulla fede e la vocazione religiosa che ha molti punti in comune, ma senza raggiungerne la forza, con In memoria di me di Saverio Costanzo. Il film è nettamente diviso in due parti, la prima è ambientata in un seminario cattolico e ha al centro un giovane in bilico fra vocazione, rispetto delle regole e fascino delle tentazioni mondane. La seconda segue lo stesso personaggio, quando è mandato, per una pausa di riflessione, presso un lontano convento di frati e suore. Anche lì continuano i dubbi e non mancano le seduzioni che danno vita ad un processo complicato e lacerante che trova un momento di mediazione nella figura del priore, un anziano monaco comprensivo e pronto al compromesso. E’ un film più parlato che visto, in cui tutto è detto e ben poco è rappresentato. Le stesse suggestioni carnali sono immerse in un gelo formale che le priva quasi del tutto di forza. Un esercizio di stile, più che un testo sofferto e partecipato. Cuando ella saltó (Quando lei saltò) dell’argentina Sabrina Farji sembra un prodotto della novelle vague periferica, arrivato in ritardo di una quarantina d’anni. Stesso tono intimista, uguale miscela di immagini realiste e fantastiche, identico spirito sentimentale con, in più, un pizzico di cinema da videoclip. La storia è quella di un giovanottone che assiste al suicidio di una bella ragazza, ne incontra la gemella, se ne innamora, la vede rischiare la morte, la recupera in uno sdolcinato lieto fine. Il taglio è quello del cinema indipendente che calca eccessivamente i toni romantici e strizza l’occhio al pubblico giovanile. Una miscela che prevede personaggi strani, eventi legati direttamente alla cultura del fumetto e del cinema di serie B, musica etnica e, in questo caso, una spruzzata di magia buona a recuperare la tradizione fantastica cara a certo cinema latinoamericano. Speranza vana, in quanto il film fa acqua da ogni parte e, spesso, precipita nella noia.
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La buona notte

The Good Night (La buona notte) film d'esordio di Jake Paltrow, fratello della più celebre Gwyneth, è la classica produzione a mezza strada fra il film commerciale e quello indipendente. Pervaso dai peggiori cascami dello spirito Sundance, racconta la crisi di un musicista, un tempo membro di una band che ebbe una certa fama, che campa scrivendo jinge per spot pubblicitari. Il menage familiare con l'intellettuale Dora, interpretata dalla sorella del regista, è in crisi per reciproco affievolimento sentimentale, una situazione che precipita, quando il compositore inizia a sognare una sorta di donna ideale, Penelope Cruz, con la quale immagina di fare l’amore in situazioni paradisiache. Per immaginarla meglio si chiude sempre più in sé stesso, fa coprire le finestre della camera da letto e tappezzare le pareti di nero. Chiede consiglio, poi, ad una sorta di guru dai mille mestieri, Danny DeVito, che sostiene di saper trasformare i sogni in realtà. Mal gliene incoglie, perchè, quando incontra davvero la donna dei suoi sogni, una quotata modella, questa lo scarica brutalmente al primo approccio. Un terribile incidente d’auto chiude la storia e la riapre su una riconquistata armonia con la compagna di sempre. Solo che anche questo è un sogno, visto che, in realtà il protagonista giace in fin di vita in un letto d’ospedale e, forse, non si salverà. A favore di questa tesi ci sono le testimonianze di amici e conoscenti, che aprono e chiudono il film parlando di lui al passato. Attori famosi, atmosfera intellettuale, personaggi di contorno misuratamente strani, c’è tutto l’armamentario per presentare il film come un prodotto intellettuale attento alle novità del linguaggio. In realtà si tratta di una rimasticatura di temi vecchissimi, affrontati dal cinema più volte e con miglior esito. Un film furbo che mira più agli incassi che non all’originalità d’espressione.

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Nel Frattempo

Il festival ha presentato ben 250 titoli fra lungo, medio e corto metraggi, molti già visti in altre rassegne, alcuni meritevoli di una particolare attenzione. Miemtras Tanto (Nel frattempo) dell’argentino Diego Lerman è un buon film che conferma la stagione positiva attraversata dalla cinematografia di quel paese. La struttura è quella delle storie ad incastro, il cui risultato è un vasto mosaico sociale e psicologico. Qui sono di scena gente venditori ambulanti, piccoli artigiani, donne di pulizia, farmacisti, gente comune. Le storie riguardano un aiuto cuciniera e il suo amante troppo possessivo, una ragazza venuta dalla campagna che si accasa con un fabbricante di oggetti in ceramica, una coppia che non riesce ad avere figli. Piccoli fatti, ma drammi profondi per chi li attraversa che la regia descrive con mano ferma e delicata. Davvero un buon film.
Drama /Mex del messicano Gerardo Naranjo si basa su varie storie che s’incrociano, una tendenza che sembra particolarmente forte nel cinema latinoamericano e racconta di piccole prostitute, di un burocrate che decide di uccidersi, di borgatari sboccati e violenti. C’è molto di prevedibile, ad iniziare dalla bambina – prostituta che convincerà l’anziano a preferire la vita alla morte, e di nuovo. Lo stile imita quello del giovane cinema, con inquadrature sgranate, mosse, montate senza troppo rispetto per la consecuzio e per la comprensione. In definitiva un prodotto non straordinario, ma con qualche elemento interessante.
Smiley Face (Faccia sorridente) di Gregg Araki è basato interamente sulla giornata sfortunata di un’aspirante attrice che, preda un sovraccarico di marijuana, distrugge la casa in cui abita, fallisce un’audizione, si impossessa di una rara edizione del Manifesto di Karl Marx, è inseguita dai legittimi proprietari e distrugge il prezioso volume gettandolo dall’alto di una ruota panoramica. Ci sono varie digressioni minori, ma il film è tutto in questo delirio allucinato e grava interamente sulle spalle della protagonista, Anna Faris, che non è in grado di reggerlo. La struttura dell’opera è claudicante, il tema di scarsissimo interesse, il ritmo forzatamente vorticoso. Come dire un film da dimenticare.
Savane Grace (La selvaggia Grace) di Tom Kalin parte dal libro di Natalie Robin e Steven M.L. Anderson sulla moglie del figlio dell’inventore (Leo Baekeland) della bakelite. Una donna complessa e dalla vita, a tratti, tragica che, dopo l’abbandono del marito, ebbe una serie di relazioni turbinose sino al legame incestuoso con il figlio omosessuale. Siamo dalle parti dei grandi film melodrammatici cari a Douglas Sirk con, in meno, quel sovraccarico di rigore barocco che caratterizzava il cinema del regista de La magnifica ossessione (Magnificent Obsession, 1954). Qui il livello è quello dell’erotismo ordinario, perciò anche la scena di sesso, quasi esplicito, fra madre e figlio ha un taglio talmente distaccato da non turbare più di tanto. Un film professionalmente preciso, ma nulla più.
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Madonne
I fratelli Dardenne hanno prodotto, insieme con altri, Madonnen (Madonne) opera seconda della tedesca Maria Speth e la cosa si sente nello stile e nel tipo di film. L’opera ruota attorno alla figura di Rita, una giovane donna, madre di cinque figli, avuti da padri diversi, soprattutto militari americani di colore. La sua è una sorta di vendetta, inconsapevole, ma violenta, contro sua madre che l’ha trascurata dopo averla avuta con un belga, ammogliato e, ora, diventato commissario di polizia. All'inizio le va a cercare il padre naturale finendo in prigione e subendo la deportazione in Germania, dove l’attende una condanna per furto e altre malversazioni. Uscita di galera si riprende i figli, nel frattempo custoditi dalla nonna, e continua la vita di sempre, mantenendosi con i sussidi pubblici e con i soldi di un militare nero che è diventato il suo nuovo amante. Quando il soldato deve rientrare negli Stati Uniti, per lei si apre un nuovo periodo d’incertezza e difficoltà. Il film segue i gesti di questa donna, che vive alla giornata, con occhio freddo e distaccato, come è nello stile dei due registi belgi, senza emettere sentenze o prendere parte, ma limitandosi ad osservare ciò che succede come uno spettatore non coinvolto. Il lavoro sulla macchina da presa è notevole e conferisce all’opera un forte senso di verità, come se fosse un documentario. Sono gesti banali, litigi persino ovvi, ma dietro ad essi traspare una disperazione profonda che la regia si limita a registrare.
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Interbista
Il regista danese Theo Van Gogh diresse Interview (Intervista) nel 2003 e pensò quasi subito di farne una versione in inglese. Il progetto fu interrotto dalla sua morte, avvenuta nel 2004 per mano di un fanatico islamico che non gli perdonava le prese di posizione contrarie all’integralismo religioso. Steve Buscemi ha ripreso in mano quell’idea realizzando un film di cui è anche interprete con Sienna Miller. Tutto si svolge in poche ore di una notte nel loft di una famosa attrice televisiva che si è portata a casa un subdolo giornalista che vuole intervistarla, ma è rimasto vittima di un incidente stradale. E’ un lungo duello verbale fra due personalità che fingono simpatia e affetto, ma affilano i coltelli sotto il tavolo, ed è la storia di una stangata verbale in cui la vittima sarà proprio colui che è disposto a qualsiasi bassezza pur di fare uno scoop. Quando crederà di avere in mano il destino della donna, della quale pensa di aver letto il diario (in realtà si tratta della sceneggiatura di una soap opera), le cose si rovesceranno e sarà l’attrice a minacciare di farlo licenziare e di denunciarlo alla polizia usando una registrazione che gli ha estorto in cui lui confessa di non avere informatori politici, come ha fatto credere al suo capo al giornale per far passare articoli frutto solo della sua fantasia, e di aver lasciato morire la moglie senza darle aiuto. Un film d’attori dall’impianto nettamente teatrale, ma brillante nei dialoghi e intrigante nella struttura. L’unico difetto è nella lunghezza, che pare forzata al solo scopo di raggiungere quella canonica di un film commerciale. Gli interpreti sono bravi e la regia professionalmente energica.

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Ho servito il re d'Inghilterra
Qualche riga sui film cechi, iniziando da quello che ha maggiormente colpito. J¡ří Menzel è, tra i registi della generazione storica di questa cinematografia, quello che dispone di maggiore lucidità e coerenza stilistica. Lo dimostra Obsluhoval Jsem Anglického Krále (Ho servito il Re d’Inghilterra) in cui racconta la vita di un giovane che sogna di diventare ricco e che, quando ci riesce, nel 1948, arriva il regime real – socialista gli porta via tutto e lo manda in prigione per una quindicina d’anni. Quando sarà liberato finirà esiliato in una taverna di montagna ora in rovina, un rudere che lui, con pazienza e fatica, rimette in funzione. Il film è costruito sui ricordi di questo sognatore e passa dalla Cecoslovacchia ricca e crapulona degli anni trenta, all’occupazione nazista, la deportazione degli ebrei, la guerra. Il personaggio principale ha stretti rapporti con la figura del buon soldato Schweyk, il personaggio inventato, nel 1921, da Jaroslav Hasek (1883 – 1923), a cui si è ispirato Bertold Brecht (1898 – 1956) per Schweyk im zweiten Weltkrieg, (Schweyk alla seconda guerra mondiale, 1941 - 44). E’ una figura gentile e ottimista che riesce a passare indenne attraverso le difficoltà che incontra, assecondando le follie del potere o fingendosi stupido. Anche Jan Dítĕ, il protagonista del film, è fatto della stessa pasta: non dubita mai della fortuna che lo bacerà in fronte, subisce le peggiori offese quasi senza ribellarsi, aggira ogni ostacolo con il sorriso e l’astuzia. E’ anche un pronipote dal giovane aiutante ferroviere di Ostre sledované vlaky (Treni strettamente sorvegliati, 1966), vista la commistione fra mite ribellismo e gusto del sesso libero e fantasioso. Il regista guida il film con mano ferma, percorre sentieri già battuti, ma lo fa con rigore e stile sicuri.
Valori che non si ritrovano nelle cosiddette commedie ceche come Grandhotel di David Ondříček che guarda quasi elusivamente al pubblico giovanile, mescolando pudibondi discorsi d’amore a personaggi strani. Tale è il trentenne Fleischman che raccoglie dati meteorologi e vive in una cameretta posta quasi alla sommità di uno strano albergo fatto a forma di gigantesca antenna. Siamo nella regione montana di Liberec e il nostro, timido e complessato sino alla schizofrenia, finisce in mezzo ad un balletto di amori che coinvolge due cameriere e un collega. E’ ovvio, sin dalle prime battute, che la coppia mal assortita si sfascerà in favore del ricercatore scontroso e si ricomporrà con la ragazza complessata che ha fatto il possibile, sempre in termini più che morigerati, per portarselo a letto. E’ uno di quel film che fanno il paio con i nostri cinepanettoni con tanto di pubblicità nascosta e sponsorizzazioni televisive, ma senza sguaiataggini e topless. Questa è l’unica differenza, per il resto siamo sulla stessa lunghezza d’onda.
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Bestiario
Stesso discorso per Bestiář (Bestiario) della regista Irena Pavlásková che si è arrabbiata perchè il distributore internazionale ha attribuito al film il titolo The Bitch's Diary (Diario di una puttana), ma ha poco da protestare, visto che la protagonista dell’opera usa passare, con disinvoltura, da un letto all’altro alla sedicente ricerca di un amore perfetto. Una ricerca che la porta a non trascurare un potente ministro e un ricco bisessuale che riesce a fare sesso solo fuori casa e con la preferenza per la lacerazione della biancheria intima. Il tutto dovrebbe servire a dimostrare che gli uomini sono dei gran mascalzoni e l’unica via verso la felicità, per le donne, è quella di rimanere sole. Tesi tardo – estremistico – femminista, brandita con una certa disonestà morale, visto che la regista non disdegna di mostrarci la protagonista senza veli o in seducenti posizioni stile rivista patinata. Fra case di lusso e vacanze milionarie scorre un film fasullo e inutile.

Premi concorso internazionale
Gran premio – Globo di cristallo e 20.000 Dollari da dividersi in parti uguali fra il regista e il produttore del film:
Mýrin (La città dei barattoli, 2006), Islanda /Germania, di Baltasar Kormákur.
Premio speciale della giuria:
Lucky Miles (Miglia fortunate, 2007), Australia, di Michael James Rowland.
Premio alla migliore regia:
Kunsten å tenke negativt (L’arte del pensiero negativo, 2006), Norvegia, di Bård Breien.
Premio alla migliore attrice:
Elvira Mínguez interprete di Pudore (Pudor, 2007), Spagna, di Santiago Roncaglielo.
Premio al miglior attore:
Sergey Puskepalis interprete di Prostyje vešči (Cose semplici, 2006), Russia, di Alexej Popogrebskij.
Menzione speciale ex-aequo:
Leonid Bronevoy interprete di Prostyje vešči (Cose semplici, 2006), Russia, di Alexej Popogrebskij
e
Zdeněk Svěrák per la sceneggiatura di Vratné lahve (Vuoti, 2007), Repubblica Ceca – Gran Bretagna – Danimarca, di Jan Svĕrak.
Concorso documentari.
Miglior documentario di durata inferiore a trenta minuti e 5.000 Dollari:
Artěl (Comune, 2006), Russia, di Sergey Loznitsa.
Menzione speciale:
Teodors (Teodoro, 2006), Lettonia, di Laila Pakalnina.
Miglior documentario di durata superiore ai 30 minuti e 5.000 Dollari:
Ztracená dovolená (Vacanze perdute, 2007), Repubblica Ceca, di Lucie Králová.
Menzione speciale:
Problemat s komarite i drugi istorii (Il problema della zanzara e altre storie, 2007), Bulgaria, di Andrey Paounov.
Sezione East of the West
Miglior film e 10.000 Dollari:
Armin (id. 2007), Croazia – Germania - Bosnia Eerzegovina, di Ognjen Sviličić.
Menzione speciale:
Klass (La classe, 2007), Estonia, di Ilmar Raag.
Altri premi
Premio per il contributo straordinario al mondo del cinema:
Danny DeVito
, attore, regista e produttore (USA).
Břetislav Pojar, regista (Repubblica Ceca).
Premio del pubblico patrocinato dal giornale PRÁVO:
Vratné lahve
(Vuoti, 2007), Repubblica Ceca – Gran Bretagna – Danimarca, di Jan Svĕrak.
Premi non ufficiali
Premio della Federazione Internazionale della Stampa Cinematografica (FIPRESCI):
Prostyje vešči
(Cose semplici, 2006), Russia, di Alexej Popogrebskij.
Premio Don Chisciotte della Federazione Internazionale dei Cineclub (FICC):
Mýrin
(La città dei barattoli, 2006), Islanda /Germania, di Baltasar Kormákur.
Premio della giuria ecumenica:
Prostyje vešči
(Cose semplici, 2006), Russia, di Alexej Popogrebskij.
Menzione speciale:
Dialogue avec mon jardinier (Conversazione con il mio giardiniere, 2007), France, di Jean Becker.
Premio Etichetta Europa:
Klass (La classe, 2007), Estonia, 2007 di Ilmar Raag.
Premio della televisione ceca – Macchina da presa indipendente:
Pingpong
(2006), Germania, di Matthias Luthardt.
Premio dell’associazione per la promozione del cinema asiatico (NETPAC):
Bikur hatizmoret (La visita della banda, 2007), Israele – Francia, di Eran Kolirin.