07 Ottobre 2018
Indice |
---|
51° SITGES Festival Internacional de Cinema Fantàstic de Catalunya |
Pagina 2 |
Pagina 3 |
Pagina 4 |
Pagina 5 |
Pagina 6 |
Pagina 7 |
Pagina 8 |
Tutte le pagine |
Suspiria di Luca Guadagnino ha inaugurato il 51 Festival Internacional de Cinema Fantastic de Catalunya con l’assegnazione del Gran Premi Honorific alla protagonista Tilda Swinton. Per undici giorni, dal 4 al 14, Sitges presenta 250 film in sette sale contando su dieci giurie internazionali per le principali sezioni del Festival. Nella Secció Oficial Fantástic il nuovo film del gallese Gareth Evans Apostle (Apostolo) di 126 minuti, interpretato da Dan Stevens. Già autore di film d’azione quali The Raid e The Wicker Man, questo cineasta narra di una piccola isola britannica al principio del XX secolo dove si è insediata una setta religiosa che si amministra con proprie leggi. Dopo una difficile traversata marina e un faticoso cammino si giunge nella valle dove si è ammessi superando ferrei controlli. Dietro l’Eden, per così dire, si nasconde una setta feroce e sanguinaria. Ha rapito una giovane per ottenere un riscatto, e aspetta il fratello dell’ostaggio che dovrebbero liberare su pagamento, ma il giovanotto sa che non ne uscirebbe vivo e sbarca sull’isola con una falsa identità. Scopre una realtà drammatica: dietro ispirati sermoni si cela uno spietato gruppo di comando che impone il coprifuoco, controlla tutti e sopprime chi si ribella. Chiarita la situazione, il regista da il via alla tensione che copre tutta la narrazione descrivendo sotterfugi, scontri ed eliminazioni. Il sangue scorre a fiotti, il film d’azione sconfina nell’Horror, ma nessuno spettatore ha lasciato la sala.
Meno coinvolgente, nella stessa sezione, Elizabeth Harvest (Il raccolto di Elisabetta), prodotto da USA e Gran Bretagna, ma diretto dal venezuelano Sebastián Gutiérrez. In 105 minuti descrive i matrimoni del sofisticato Henry che sposa una giovane semplice e la porta nella sua villa ultramoderna. Come insegna Perrault, le dice che può andare dove vuole tranne che nella sua camera di lavoro. In assenza del marito, però, lei supera la soglia proibita e scopre una giovane che le somiglia, tenuta in vita artificialmente. Vorrebbe fuggire, ma tutte le porte hanno un codice e lei dovrà attendere il marito che non la perdonerà. Henry si risposa. Sembra la stessa donna, e si scoprirà che si tratta di cloni che lui ha elaborato. Nella casa risiede anche una scienziata che funge da segretaria di Henry, e un giovane cieco, che potrebbe essere suo figlio. Quando il padrone di casa non ha la meglio tentando di uccidere l’ennesima moglie, e ci lascia la pelle, la lotta si scatena tra i superstiti. Interpretato da Abbey Lee e Ciaran Hinds, il film è a volte ripetitivo, a volte scientificamente didattico, leggermente claustrofobico dentro una villa, labirinto e prigione.
Nuovo di zecca Asher, il film dello scozzese Michael Caton-Jones, nella sezione Orbita. E’ tanto cinema dalla parte di un regista navigato che qui riunisce vecchie glorie quali Jacqueline Bisset, Richard Dreyfuss, Ron Perlman e la giovane Famke Janssen. Niente di nuovo nella vicenda del vecchio killer a pagamento che vorrebbe smettere, ma si trova al centro di uno scontro che ne prolunga la carriera. Ex Mossad, Asher elimina i cattivi in una New York notturna dove incontra una giovane insegnante di danza con una madre demente. Sicuro e discreto nel suo lavoro, riservato e disilluso nei sentimenti, implica involontariamente la giovane durante l’eliminazione di un mafioso e si offre di proteggerla. Potrebbe essere l’inizio di un idillio, ma tradimenti in seno a due gruppi in lotta mettono nuovamente in pericolo tutti e due. Dura 105 minuti e tende a mettere in risalto la solitudine del killer, le sue abitudini e le complicazioni per una eventuale redenzione. Riesce tuttavia a privilegiare atmosfere da ex Film Noir all’azione e alla violenza che comunque non possono non far parte della narrazione.
Nella sezione Orbita del Festival si è vista l’anteprima mondiale di La sombra de la ley (L’ombra della legge), secondo lungometraggio dello sceneggiatore galiziano Dani de la Torre. Nella tradizione dei film noir che si giravano a Barcellona nei primi anni Cinquanta e con un omaggio a classici americani quali Gli intoccabili, il regista descrive, partendo da un testo di Patxi Amezcua azioni di gangster nella Barcellona del 1921. Lo strapotere degli industriali e la collusione con corrotti rappresentanti della legge si scontra con l’attività di gruppi anarchici e con le manifestazioni di operai in sciopero. Il film si apre col furto di un carico di armi dell’esercito e con l’inevitabile responsabilizzazione degli anarchici. Per indagare sul fatto arriva da Madrid l’agente Aníbal Uriarte (Luis Tosar) che collabora con l’unità catalana, ma s‘infiltra anche tra gli scioperanti e gli anarchici, e ha contatti col potente direttore del più celebre teatro di rivista della città, industriale e titolare di innumerevoli attività. Nella tradizione dei western, dove in città arriva un forestiero per far giustizia, Aníbal Uriarte gioca molti ruoli, e soltanto nel finale si verrà a conoscenza della sua identità. Durante 126 minuti si celebrano soprusi di poliziotti corrotti; intrighi, omicidi e tradimenti tra potenti, inganni, scontri ed eliminazioni nelle manifestazioni di scioperanti e anarchici. Ripresa come la Chicago anni Trenta, Barcellona fa da sfondo a misfatti e atrocità, addolciti da numeri di varietà con belle ragazze sgambettanti. La protagonista è Michelle Jenner, femminista ante litteram, insieme con un ricco cast di professionisti in un racconto che nello stile adombra film polizieschi statunitensi di successo.
Più accattivante il film argentino della sezione ufficiale, Aterrados (Terrorizzati) del quarantenne Demian Rugna. Al suo terzo film questo regista regista imposta una storia al di fuori della realtà fisica, narrata come se tutto fosse vero. Dichiara che voleva realizzarla da nove anni, e finalmente ci è riuscito. Si direbbe un film basato sul nulla: appena l’idea di strani rumori in una casa alla periferia di Buenos Aires, con creature immaginarie che terrorizzano alcune persone e che le inducono a comportamenti incontrollati e anche alla morte. Per tentare di rendere accettabili i misteriosi accadimenti, il cineasta convoca sul set alcuni esperti dell’occulto le cui indagini tendono a spiegare scientificamente ciò che scientifico non è e che si può configurare soltanto nella mente scossa dei pazienti. Tuttavia, i personaggi, seppure calati in situazioni irreali, concorrono a dar spessore alla narrazione che cattura gli spettatori, anche con alcuni risvolti ironici. Interpretato da Maxi Ghione, Elisa Onetto e Norberto Gonzalo, il film assicura 87 minuti di tensione e sembra voler dimostrare che per diventare vittime si deve credere negli avvenimenti, in particolare se i mostri li creiamo nelle nostre teste.
Nella sezione ufficiale anche una commedia nera di appena 73 minuti firmata Quentin Dupieux. Famoso per film quali Rubber e Wrong Cops, il regista situa nella Parigi anni Settanta la vicenda di Au poste! (Al commissariato!) sull’interrogatorio di un testimone, (Gregoire Ludig) che ha trovato un cadavere. Interpretato dal belga Benoît Poelvoorde nei panni di un commissario sornione che costringe il testimone a ripetere le dichiarazioni, il film mette in risalto il timore del testimone di essere incriminato per un crimine che non ha commesso. Non solo, ma il commissario lo lascia anche temporaneamente in custodia di un subalterno che gli gioca un brutto scherzo. Sorta di teatro da camera costruito su un susseguirsi di gag, riserva un paio di sorprese finali, tipiche dell’universo capovolto di Dupieux.
Il Tappeto Rosso del Festival che ha già accolto Tilda Swinton, Ron Perlman, Pam Grier, oggi ha richiamato mezza Barcellona per applaudire Nicolas Cage, Gran Premio onorifico del Festival, e protagonista di Mandy di Panos Cosmatos. In attesa dell’arrivo di altre stelle, da Peter Weir a Ed Harris, abbiamo visto la recente interpretazione di questo attore in un film che definire gotico sarebbe fuorviante. Secondo film di Cosmatos Jr., otto anni dopo Beyond the Black Rainbow, sembra voler sublimare un genere caro a Charles Bronson, quello de Il giustiziere della notte. Presentato nella sezione ufficiale, il film mette in scena la vendetta. E lo fa in maniera cruenta perché cruenti e disumani sono gli appartenenti a una setta di drogati e assatanati che in nome di Dio commettono crimini efferati. il film dura due ore. Nella prima si assiste alla vita felice del boscaiolo Red Miller e di sua moglie Mandy in una casa nella campagna e alla loro cattura da parte di una banda che brucia la donna che rifiuta di concedersi al capo. Nella seconda, Red riesce a liberarsi e prepara le armi per la vendetta: una balestra, una doppia lama d’acciaio e una sega elettrica che trova nel campo dei drogati. Molto lenta la prima parte; movimentata e violenta la seconda nella quale si vuole pareggiare con implacabili esecuzioni il dolore di una perdita. Film rituale, con qualche battuta infelice, dedica largo spazio al commento musicale di Jòhann Jòhannsson e, si suppone, si rivolga ai fan del macabro.
Di taglio hollywoodiano, e con tanta nostalgia degli anni Ottanta, quelli di Reagan, il secondo film di François Simard, Anouk e Yoann-Karl Whissell, il trio canadese di Summer of ’84 descrive l’infanzia perduta di quattro quindicenni nel paese di Cap May che sospettano un agente di polizia della scomparsa di alcuni loro coetanei. Ragazzi svegli e decisi, i quattro, tra coraggio e incoscienza, ficcano il naso dappertutto rischiando grosso e scontrandosi con genitori tradizionalisti. Sulla scia di una serie nata negli anni Trenta con Emil und die Detektive dal romanzo di Erich Kästner, durante novanta minuti si respira l’atmosfera lieta e volenterosa di adolescenti in crescita per concludersi con un quarto d’ora nero dove le fantasie dei teenager si scontrano con una realtà degradata. Ben scelti gli attori e cito a caso Graham Verchere, Judah Lewis, Caleb Emery
Prodotto da Danimarca e Svezia si è visto un film di 95 minuti nella sezione Fantàstic Discovery, Zoo di Antonio Tublèn, thriller da camera che si svolge in un appartamento di Londra durante la propagazione di un virus che ha generato orde di zombie affamati. A parte qualche rapida apparizione di morti viventi, il film mette a fuoco il matrimonio in crisi dei giovani Karen e John che dovendosi barricare in casa in attesa di elicotteri di salvataggio si conoscono meglio e si apprezzano fino alla nascita di un forte e reciproco amore che dovrà scontrarsi con una situazione estrema. Non mancano risvolti ironici, soprattutto durante l’accoglienza, e poi il rifiuto, di una coppia in fuga. Tuttavia, si direbbe la cronaca del mutato atteggiamento dei coniugi e l’analisi psicologica di questo mutamento senza rinunciare al clima teso di una situazione che si protrae fino alla chiusura del dramma. Con Zoë Tapper, Edward Speleers e Antonia Campbell-Hughes.
Nella giornata dedicata in larga parte a cortometraggi e a serie Tv, il Festival ha presentato il terzo lungometraggio dell’attrice e regista francese Mélanie Laurent, Galveston, il primo girato negli USA e adattato da un romanzo di Nic Pizzolatto, l’ideatore di True Detective. Roy, il cui medico sospetta che abbia un tumore ai polmoni, è inviato dal capo a regolare i conti con alcuni irregolari. Va detto che si tratta del boss di una banda criminale e che ha teso una trappola a Roy. Lo attendono infatti uomini armati che uccidono un suo compagno e ai quali riesce a sfuggire portando con sé Raquel, una ragazza loro prigioniera. È l’inizio di una lunga fuga durante la quale la giovane recupera la sorella di tre anni e, a insaputa del suo salvatore, uccide l’uomo che l’aveva violentata. Dovrebbe essere l’inizio di una nuova vita, ma la notizia dell’omicidio di Raquel è su tutti i giornali, e Roy commette l’ingenuità di chiamare il suo medico che lo localizza e informa il boss. Catturati dagli uomini della banda, i due vengono torturati. Raquel muore. Roy, aiutato da un’antica conoscente, scappa, ha un incidente e viene ospedalizzato. Scopre di avere soltanto un’aspergillosi e che può vivere a lungo, ma deve fare i conti con l’avvocato del boss col quale patteggia vent’anni di carcere. Il finale a sorpresa rientra nello schema del film che da più spazio ai sentimenti e ai desideri dei due diseredati che alle azioni violente. Interpretato da Ben Foster, Elle Fanning e Maria Valverde, il film dura 94 minuti.
Dagli imprevisti di una realtà drammatica ai deliranti incubi notturni di persone che hanno subito violenze passiamo a Incident in a Ghostland, produzione franco-canadese per la regia di Pascal Laugier, che in Italia uscirà il 22 novembre col titolo La casa delle bambole. Narra di Pauline, quarantenne con due figlie adolescenti, Vera e Beth, che arrivano in una casa di campagna ereditata da una vecchia zia. E non hanno il tempo di sistemarsi perché un energumeno e una donna dall’aspetto disumano irrompono nella casa, le attaccano e hanno la meglio in una lotta impari. Beth, tuttavia, riesce a fuggire, e la ritroviamo anni dopo a Los Angeles, diventata famosa scrittrice di romanzi horror, felicemente sposata e con un bambino di tre anni. Una drammatica telefonata della sorella la riporta nella vecchia casa dove la madre le dice che Vera non ha mai superato lo shock, è fuori di testa e si è rinchiusa in una stanza tappezzata di materassi. Una nuova irruzione dei due aggressori provoca la morte della madre e la reclusione di Beth, agghindata e truccata come una bambola e messa in catene accanto a decine di bambole. Un tentativo di fuga si conclude con l’uccisione di due poliziotti e con le sorelle nuovamente in catene. Quelle morti, tuttavia, allertano il distretto di polizia. Interpretato da Crystal Reed, Emilia Jones e Anastasia Phillips, il film di novanta minuti si divide in due parti: fastidiosa la prima infarcita di facili stereotipi orrorifici; intrigante invece la seconda, anche se totalmente irrazionale, nella quale si mette a fuoco la morbosità dell’energumeno, infantile e violento, che si delizia delle sue bambole di carne o di plastica.
Nel film australiano Nekrotronic di Kiah Rouche-Turner troviamo Monica Bellucci nei panni di un potente virus del male che via Internet trasforma ignari utenti in posseduti del maligno. La combatte un gruppo di negromanti a colpi di scariche elettriche. E la battaglia attraverso la fibra ottica può diventare lunga e devastante, ma il regista privilegia l’ironia e racconta di due amici che vengono coinvolti nello scontro da uno dei due che giocando col cellulare viene trasformato in zombie, uno zombie infantile e simpatico che non morde ma aiuta l’amico nella lotta contro il male. Applaudito al Festival di Toronto, il film si propone anche come gioco, lungo cento minuti, che scherzando con le diavolerie di Internet ne sublima la pericolosità.
Presentato fuori concorso a Cannes, The House that Jack Built, (La casa di Jack) di Lars Von Trier trova migliore collocazione in questo Festival dove assassini seriali si avvicendano quotidianamente sugli schermi. Interpretato da Matt Dillon, in una America anni Settanta dove il protagonista viene seguito per dodici anni condensati in 155 minuti di proiezione, il film analizza il comportamento di uno psicopatico. Meticoloso nei dettagli, cruento e disumano nei delitti, Jack ha un furgoncino e una grande cella frigorifera dove colleziona le vittime dandole forma “artistica” prima che si congelino. Suddiviso in cinque parti, definite Incidenti, il film si apre con l’incontro con una bella signora, snob e chiacchierona, che insulta ed esaspera Jack fino a provocarne una reazione violenta e omicida. Seguono altri delitti: di donne, bambini, uomini e anche della sua ragazza. E quando grida di aver ucciso sessanta persone, un agente gli consiglia di bere meno. Le scene sono intervallate con illustrazioni di opere d’arte e con immagini di stermini, nazisti e altri, perché il film adombra la tesi dell’omicidio come opera d’arte, e lo fa con qualche risvolto ironico. Non abbastanza perché la stessa tesi era stata già illustrata, e con molta più ironia da Thomas De Quincey nell’Ottocento col suo libro L’assassinio come una delle belle arti. Per quanto ben interpretato, (ci sono anche Uma Thurman e Bruno Ganz) e ben diretto, il film sconfina dal film noir per descrivere una lucida e fredda follia dove le vittime sono rappresentate come numeri e dove l’analisi psicologica dello psicopatico sembra legittimare il comportamento sinistro e morboso del protagonista. Considerato da molti come una sorta di film autobiografico, mette in risalto il punto di non ritorno al quale è giunto il regista danese.
Sicuramente più originale l’esordio del canadese Akash Sherman che ha scritto e diretto Clara, vicenda sentimentale su un giovane astronomo separatosi dalla moglie dopo la morte del loro bambino. Insegnante universitario, ossessionato dalla ricerca di vita su altri pianeti, Isaac trascorre intere giornate al telescopio per scoprire forme di vita extraterrestre. L’isolamento e l’ostinazione lo stanno distruggendo quando alla sua porta si presenta Clara, ricercatrice non particolarmente istruita ma estremamente motivata che riesce a ridurre la tensione della ricerca e a indirizzare Isaac dall’ex moglie che lavora in una stazione dotata di un potente telescopio. E’ il mezzo del quale il giovane ha bisogno per capire se ha scoperto un altro pianeta o soltanto una massa vagante. La vicinanza di Clara accelera il lavoro dell’astronomo e gli apre gli occhi sulla vita di tutti i giorni, ma Isaac non sa che la ragazza soffre di una malattia rara e che potrebbe non farcela. Al di là della vicenda, non del tutto nuova, il film mostra giovani desiderosi di crescere, di costruire, di proiettarsi nel futuro e illustra due differenti forme di intendere la vita che offrono una riflessione. Interpretato da Patrick J. Adams, Ennis Esmer e Troian Belisario, il film dura 105 minuti ed era in catalogo al Festival di Toronto.
Un accenno merita l’unico film iraniano in concorso, Khook (Maiale), scritto e diretto da Mani Haghighi, collaboratore di Asghar Farhadi, che ha studiato filosofia a Montreal prima di tornare a Teheran e girare quattro film. E dopo A Dragon arrives!, il regista si cimenta in una commedia nera dai toni autobiografici nella quale narra di un cineasta al quale il governo ha vietato di girare film e che sopravvive realizzando spot pubblicitari. Purtroppo, a Teheran si aggira un serial killer che sta uccidendo tutti i registi, e quando dinanzi allo studio di Hasan trovano la testa dell’ultima vittima, il cineasta è terrorizzato. Già depresso per la perdita del lavoro e per il tradimento dei suoi collaboratori che ora lavorano con suoi ex concorrenti, e sconcertato dal fatto che la moglie abbia un flirt con un giovane attore, Hasan vive nella paura, ma agisce istintivamente guidato da uno sproporzionato ego. Interpretato da Hasan Majuni, il film dura 107 minuti.
Nella sezione ufficiale del Festival due film di taglio tradizionale hanno riscosso molti applausi. Dall’Argentina lo sceneggiatore di Biutiful e Birdman, Armando Bo, ha diretto Animal, 113 minuti per le strade di Buenos Aires dove Antonio, conservatore con moglie, due figli adolescenti e un posto nello staff direzionale di un grande esportatore di carni, è alla ricerca di un donatore di reni essendo in dialisi da un paio d’anni e trovandosi in coda a una lunga lista d’attesa. Lo trova in un giovane sbandato, Elias, che vive di espedienti. Di Antonio, il regista traccia un profilo di borghese mite, che vive in villa, e che si scontra con la moglie quando le confida di voler dare tutti i loro risparmi a un giovane pronto a cedergli un rene. Elias, spesso ubriaco, divide un fatiscente monolocale con una ragazza. Antonio gli mostra la casa che è pronto a offrirgli in cambio del rene, ma quando Elias vede la sua villa, vuole quella e provoca un terremoto in famiglia perché Antonio è pronto a cedere e moglie e figli lo lasciano. Tuttavia, Elias è indeciso, ha paura, beve e confida alla ragazza che vorrebbe assicurarsi la proprietà della villa senza cedere il rene. Esausto della tirannia dei cambiamenti d’umore di Elias, Antonio lo sequestra e lo porta in clinica da un amico chirurgo. Interpretato da Guillermo Francella, Carla Peterson e Federico Salles il film riesce ad accaparrare l’attenzione del pubblico con un ritmo teso, lo scontro tra due ceti sociali, e la suspense legata alla salute malferma di Antonio e alla sua ostinazione.
Dalla Danimarca il quinto film di Christoffer Boi che nel 2003 vinse la Camera d’or a Cannes col film Reconstruction. Journal 64: i casi della sezione Q ci riporta all’inizio degli anni Sessanta che nel paese scandinavo furono di rigorosa e repressiva condotta sociale. Narra di Nete, quindicenne innamorata del cugino, che il padre spedisce su un’isola dove in una sorta di riformatorio per ragazze con annesso ospedale venivano repressi comportamenti considerati libertini. Il film si apre ai nostri giorni col ritrovamento di tre cadaveri mummificati in una stanza murata, seduti attorno a un tavolo con una quarta sedia vuota. Il detective Carl Morck e l’assistente Assad vogliono risolvere il mistero, e a proprie spese, il primo con metodi personali, e al secondo manca una settimana alla pensione, indagano su un ginecologo che pratica aborti illegali e sterilizza le pazienti. Scoprono che si tratta di un forte gruppo di medici, avvocati e poliziotti, che operano al di fuori della legge, ma non esistono prove della loro attività. La traccia di una vittima sopravvissuta, e protetta da una nuova identità, gli indica la possibilità di una nuova indagine. Interpretata da Fares Fares, Nikolaj Lie Kaas, Nicolas Bro la detective story si snoda come un thriller lungo cento minuti in paesaggi urbani innevati e in un interno di commissariato.
La parte più cruenta di film che celebrano temi quali azioni violente, terrore, orrore e omicidi arrivano dall’Oriente. E per i fan una citazione merita la carneficina senza tregua, lunga due ore, dell’indonesiano The Night comes for us, (La notte giunge per noi), secondo film di Timo Tjahjanto presentato nella sezione Orbita. Il tema, un antico sicario deve proteggere un giovane che tenta di fuggire dalla Triade alla quale apparteneva, è soltanto un pretesto per mettere in scena violente immagini di lotta che sembrano uscite da un manuale di arti marziali. E gli scontri per le vie di Giacarta sono tanto ravvicinati da costituire non solo l’ossatura del film, ma il filo conduttore e l’origine di una tensione che avvolge tutto il racconto. Si direbbe che i protagonisti si affrontano con gli stessi tempi degli eroi dei videogiochi. E per aggiungere altro sangue, un criminale gestisce una grande macelleria dove gli scontri mortali sono più colorati. Inutile cercare un senso al racconto quando il pubblico applaude a ogni cruenta eliminazione come ai tempi dei gladiatori.
Il manifesto del Festival e tutti i gadget di questa edizione sono dedicati ai cinquant’anni di 2001: odissea nello spazio di Stanley Kubrick che sarà anche il film di chiusura del Festival. E nello spazio vaga Aniara, stazione spaziale e titolo del film d’esordio degli svedesi Pella Kågerman e Hugo Lilja, adattato dal poema del connazionale Harry Martinson che lo scrisse nel 1956 e nel 1974 gli venne assegnato il Premio Nobel. Al di là del valore letterario, il film, già presentato al Festival di Toronto, e ancora inedito, è un’opera matura e avvincente. Narra di una nave spaziale autosufficiente, delle dimensioni di una piccola città, che trasporta passeggeri dalla Terra a Marte. Il nostro pianeta è esausto, tuttavia Marte si raggiunge in tre settimane e qualcuno ha deciso di andare e tornare, ma nessuno si preoccupa del viaggio perché la struttura offre di tutto, dalle piscine ai centri commerciali, dai cinema alle sale da ballo. C’è anche un centro speciale, dove Mimarobe, (Emelie Jonsson) è responsabile della catarsi di passeggeri depressi o in preda al panico ai quali proietta immagini idilliche della natura terrestre. Senonché spazzatura spaziale intasa i motori, e per liberarli i piloti fanno defluire il carburante che riesce nell’intento, ma lascia il mezzo senza alimentazione e spostato dalla sua orbita. È l’inizio di un’odissea che viene scandita ai passeggeri in giorni, poi in settimane, mesi, anni. A differenza del sensazionalismo di molti film americani, Aniara descrive la quotidianità della vita nello spazio e le ferree regole imposte all’equipaggio. Anche quando non ci sono più speranze di salvezza e l’astronave sta per diventare un sarcofago che vaga nel cosmo, ciò che vige è il rispetto delle regole al di là delle morti e dei suicidi sempre più frequenti. Interpretato da Arvi Kananian e Bianca Cruzeiro, il film dura 106 minuti ed è stato accolto da calorosi applausi.
Entriamo nel mito, invece, col film che esce venerdì 12, in India. Tumbbad, diretto da Rahi Anil Barve, Anand Gandhi e Adesh Prasad celebra la leggenda della dea che avrebbe creato l’intero universo. Nel decrepito villaggio di Tumbbad una madre di due figli si reca tra le rovine di un tempio per nutrire una vecchia dea dormiente. Il film si svolge attraverso le prime decadi del Novecento. Uno dei due bambini cade da un albero e muore. L’altro, Vinayak, sedici anni più tardi, sostituisce la madre e scende in profondità per portare il cibo a un essere diabolico che potrebbe ucciderlo. Corre però voce che nella cavità si nasconda un tesoro, e in effetti Vinayak conserva alcune monete. Il dramma ha inizio quando decide di portare con sé un suo figlio non ancora quindicenne e il ragazzo è abbagliato dalle monete d’oro. Poi, con la dichiarazione d’indipendenza del 1947, le rovine sono tutelate dallo Stato, e niente è più come prima. Favola sulfurea e oscura che mette in risalto l’avidità e l’ostinazione di povera gente mentre scava in una mitologia nazionale che a noi sfugge totalmente, ma che diventa un’occasione per un film dell’orrore. Interpretato da Cameron Anderson, Ronjini Chakaborty e Deepak Damle, dura 109 minuti.
Agnieszka Smoczynska ci porta ai nostri giorni, a Varsavia con Fuga, prodotto da Polonia, Repubblica Ceca e Svezia. In una stazione della metropolitana, una donna esce dal tunnel e orina davanti ai passeggeri. Non ha documenti, crede di chiamarsi Alicia, e soltanto due anni dopo, chiamata in TV è riconosciuta dal padre. Ha anche un marito e un bambino. Tornata a casa, non da segno di riconoscere nessuno. Il film descrive giorno per giorno il comportamento della donna in attesa del documento d’identità senza precisare se ha realmente perso la memoria o se rifiuta di riconoscere i congiunti. Interpretato da Gabriela Muskala, mette in risalto la fragilità dei rapporti coniugali, l’alienazione e la solitudine di chi non sa o non riesce a esprimersi e, soprattutto, il trauma che può derivare da un senso di colpa o da una situazione che sfugge. Dura 103 minuti ed era a Cannes tra i film della Settimana della Critica.
In presenza degli ultimi due cineasti premiati, il regista Peter Weir e l’attore Ed Harris, il Festival ha assegnato una marea di premi. Ben dieci le giurie, comprendenti 34 esperti, e circa quindici le sezioni. La principale, quella della sezione Fantàstic Sitges 51, ha privilegiato un film che era nella Quinzaine des Realizateurs di Cannes, Climax, di Gaspar Noé, regista argentino residente in Francia che alcuni giorni fa ha ricevuto il Méliès d’oro per la migliore produzione fantastica europea dell’anno. Il terzo film di Alice Rohrwacher, Lazzaro felice, ha ottenuto il Premio speciale della giuria, e ha vinto altri due premi: quello della critica e quello dei giovani. La menzione speciale della giuria è stata per il film francese L’heure de la sortie (L’ora dell’uscita) di Sébastien Marnier.
Mandy di Panos Cosmatos ha vinto il Premio per la migliore regia.
Migliore attrice l’americana Andrea Riseborough, protagonista di Nancy di Christina Choe. Miglior attore l’iraniano Hasan Majuni, protagonista di Pig di Mani Haghighi.
Il film francese Au poste! (Al commissariato!) di Quentin Dupieux ha vinto il premio per la migliore sceneggiaura.
Inuyashiki del giapponese Shinsuke Sato ha vinto il Premio per i migliori effetti speciali. L’indiano Tumbbad premiato per la direzione della fotografia di Panjar Kumar. Miglior colonna sonora quella di Zan (Mortale) del giapponese Shinya Tsukamoto, film già presentato a Venezia.Gran Premio del pubblico: l’australiano Upgrade (Illimitato) di Leigh Whannell.
Miglior cortometraggio Post Mortem Mary dell’australiano Joshua Long.Sezione NOVES VISIONS
Miglior film Desenterrando Sad Hill (Riesumando Sad Hill), dello spagnolo Guillermo de Oliveira. Migliore regia Mein Bruder heisst Robert und ist ein Idiot (Mio fratello si chiama Roberto ed è un idiota) di Philip Gröning, prodotto da Germania, Francia, Svizzera. Miglior corto, Deer Boy della polacca Katarzyna Gondek.Sezione Blood Window
Miglior film: Muere, monstruo, muere (Muori mostro, muori) dell’argentino Alejandro Fadel.Premio Méliès
Méliès d’argento a Fuga della polacca Agnieszka Smoczynska. Miglior corto l’inglese The Death of Don Quixote (La morte di Don Chisciotte) di Miguel Faus.Focus Asia
TUMBBAD degli indiani Rahi Anil Barve, Anand Gandhi, Lee An-kyu. Menzione speciale a Sebelum iblis Menjemput (Che il diavolo ti si porti) dell’indonesiano Timo Tjahjanto Anima’t
Miglior film, Mirai del giapponese Mamoru Hosoda. Menzione speciale, Tito e os pàssaros (Tito e i passeri) dei brasiliani Gustavo Steinberg, Gabriel Bitar, André Catoto. Miglior corto, The Wheel turns (La ruota gira), USA & Corea del Sud, di Sang Joon Kim. Menzione speciale Untravel (Inesplorato), Serbia & Slovacchia, di Ana Nedljkovi, Nikola Majdak Jr.Orbita
Miglior film lo statunitense American Animals di Bart Layton. Menzione speciale per il francese Fleuve noir (Fiume nero) di Erick Zonca.Fantàstic Discovery
Miglior film, Maquia: when the promised Flower blooms (Maquia: quando fiorisce il fiore promesso) della giapponese Mari Okada.Midnight X-Treme
Miglior film May the Devil take you di Timo Tjahjanto.Premi Brigadoon Paul Naschy
Baghead di Alberto Corredor.Premio Citizen Kane per la migliore opera prima
Domestik, Repubblica Ceca & Slovacchia, di Adam Sedlak.Premio della Critica Lazzaro felice di Alice Rohrwacher. Menzione speciale per Under the silver Lake (Sotto il lago d’argento), USA, di David Robert Mitchel
< Prec. | Succ. > |
---|