05 Novembre 2013
Indice |
---|
54° Thessaloniki Film Festival 2013 |
Pagina 2 |
Pagina 3 |
Pagina 4 |
Pagina 5 |
Pagina 6 |
Tutte le pagine |
http://tiff.filmfestival.gr/default.aspx?lang=en-US&page=1147
54mo Festival Internazionale di Salonicco
1-10 novembre 2013
Il Festival Internazionale del cinema di Salonicco, giunto alla 54ma edizione, è una delle maggiori manifestazioni europee del settore. Una rassegna che si dispiega su più percorsi: dalla sezione competitiva dei lungometraggi a quella dei corti oltre a numerosi omaggi e retrospettive: Una delle forze di questa manifestazione è la forte affluenza di giovani spettatori, una caratteristica che ha giustificato un importante intervento finanziario a sostegno della rassegna da parte della Comunità Europea. In un momento in cui questo paese si batte contro difficoltà economiche che sembrano insormontabili, va dato atto agli organizzatori di questa manifestazione di non aver ceduto di un millimetro sul paino della qualità e del livello culturale della proposta.
Fra i primi film in cartellone una menzione merita Bluebird (L’uccello azzurro), opera prima dell’americano Lance Edmands che si muove su un versante diverso da quello del cinema psicologico classico. In una piccola cittadina del Maine, in inverno, una matura conduttrice di scuola – bus che, per aiutare la famiglia, fa anche la cameriera in un ristorante, trascura di controllare a fondo il mezzo che ha appena parcheggiato in deposito, distratta da un uccellino azzurro che si è intrufolato nel veicolo. Uno dei piccoli si è addormentato sul fondo, la notte e rigidissima e, la mattina seguente, lo ritrovano in stato di coma. Inizia la girandola della ricerca delle responsabilità e l’arrivo di un avvocato che prende in mano la causa in nome della madre del ragazzo, spinge la poveretta sino al tentativo di suicidio e getta nella disperazione l’intera famiglia. Un microcosmo formato da un padre che guida grandi macchine addette al taglio degli alberi e che, proprio in quelle ore, viene a sapere che dovrà andare a lavorare lontano da lì e una figlia irrequieta che perde, consenziente, la verginità con un coetaneo che, la mattina dopo, mostra di ignorarla. Tuttavia più che i fatti raccontati l’interesse del film è nella descrizione di questa America profonda che vive in un mondo separato da tutto il resto. Donne e uomini che ignorano, né hanno nessun interesse di conoscere, ciò che capita oltre i confini della loro cittadina e per i quali il mondo esterno è solo una fonte di pericoli. In questo la figura dell’avvocato che viene da fuori la ristretta cerchia dei protagonisti, assume un ruolo particolarmente significativo. Non un grande film, ma un’opera interessante e pregevole.
Era cosa nota che Valeria Golino fosse un’attrice sensibile e brava, con Miele scopriamo anche le sue doti di regista precisa e originale. E’ la storia - tratta dal romanzo Vi Perdono (2009) di Angela del Fabbro, pseudonimo di Mauro Covacich (1965), di Irene, soprannominata Miele, che vive aiutando le persone a morire. Il tema è, dunque, quello del suicidio assistito, operato dalle mani di una candida trentenne che entra in crisi quando le propongono di aiutare a morire un professionista sulla settantina che gode di buona salute, ma è oppresso della noia del vivere. E’ a questo punto che la giovane si rende conto che questo è un vero e proprio omicidio, un delitto non velato da alcuna giustificazione umanitaria. E’ una crisi che la induce a ripensare la sua intera vita e a mettere in discussione anche i rapporti utilitaristi che ha con un paio di partner, con uno dei quali mescola letto e affari. Ne emerge il ritratto impietoso e terribile di una donna sola, che sublima nel rituale - preciso e quasi insensibile - di dare la morte agli altri un terribile vuoto esistenziale. E’ anche il momento in cui la giovane si rende conto che persino i malati terminali più disperati non hanno, in realtà, alcuna vera voglia di morire. Sono avvinghiati alla vita anche quando questa impone condizioni terribili. E’ un viaggio all’interno della coscienza che approda solo a una quiete momentanea e lascia più domande che risposte. Un testo di questo tipo richiedeva un interprete di grande sensibilità e Jasmine Trinca (1981) mostra abbondantemente di possederle entrambe con un’interpretazione mirabile in cui contano più i silenzi che le parole.
La jaula de oro (La gabbia dorata) è un bel film diretto dallo spagnolo, trapiantato nel continente sudamericano, Diego Quemada-Diez, qui all’esordio nel lungometraggio dopo essere stato assistente operatore per Terra e libertà (Land and Freedom, 1995) di Ken Loach. Un film basato su un impianto generosamente neorealista che racconta l’odissea subita da quattro quindicenni, Juan, Sara, Chauk e Samuel, in fuga dal Guatemala con la speranza di arrivare negli Stati Uniti, passando per il Messico. Debbono affrontare ostacoli d’ogni sorta imposti dalle autorità di frontiera – messicane e americane – dai malavitosi che lucrano sui poveracci che tentano la strada verso una vita migliore e dai vari sciacalli che si trovano sul cammino. Uno solo di loro arriverà a destinazione, ma scoprirà che la meta tanto agognata non è affatto promettente e generosa quanto sembrava. L’opera ricostruisce un vero e proprio calvario fatto di agguati, rapine, violenza sulle donne. E’ la radiografia di una feroce condizione di sfruttamento dei più poveri ad opera sia di coloro che dovrebbero curare la sicurezza pubblica, sia delle organizzazioni criminali. Come già detto è un film basato su un approccio neorealista e di denuncia sociale, forse nulla di veramente nuovo, ma un testo generoso e, come si diceva un tempo, civilmente impegnato. Un’opera girata in super 16, una formato inusuale per il cinema commerciale e comune a quello documentario e già questo testimonia la vocazione militante del regista. Potrebbe sembrare poco, ma non è così tenuto conto del progressivo affievolirsi della coscienza politica e della giusta indignazione a proposito di temi sociali di grande importanza come quelli affrontati in questo film il cui insieme d’interpreti ha ricevuto il premio A Certain Talent della sezione Un Certain Regard del festival di Cannes di quest’anno che lo ha ospitato.
Pelo malo (Cattivi capelli) della venezuelana Mariana Rondón ruota attorno alle figure Marta e di suo figlio Junior, un ragazzino di nove anni. La donna è single, disoccupata è in cerca disperata di un lavoro, che troverà solo dopo essersi data al dirigente che deve assumerla. Lei è quasi convinta che il ragazzino abbia tendenze omosessuali; questo perché ha un fluente capigliatura afro che vuole lisciare per assomigliare a un celebre cantante. La nonna lo asseconda in questa passione e gli confeziona abiti sgargianti che la madre considera segno evidente delle tendenze gay del bambino. Poco servono le osservazioni del medico di famiglia che cerca di far capire alla donna che, a quell’età, è impossibile identificare le tendenze sessuali dell’adulto e che, in ogni caso, nulla ci sarebbe né di male né da fare. Lei arriva al punto di quasi costringere il piccolo a guardarla mente fa l’amore con il futuro datore di lavoro: è convinta che quella scena funzionerà da cura per le tendenze del ragazzino. Il film è immerso nel panorama miserabile di una quartiere povero di Caracas, uno scenario cadenzato dai commenti della televisione sulla situazione politica venezuelana e da continui, incombenti colpi d’armi da fuoco. Alla fine la madre riuscirà a imporre al bimbo il taglio dei capelli, ma avrà anche consumato una frattura difficilmente sanabile. Samantha Castillo costruisce un personaggio disperato e complesso, dando vita ad una figura forte che s’inscrive con grande vigore in una mini tragedia familiare segnata da un vasto ventaglio di componenti. C’è il dramma della disoccupazione e, in esso, quello della condizione minoritaria delle donne, c’è l’ossessione del sesso gay, ci sono i sogni giovanili di un bimbo che vive, in tenera età, una condizione difficilissima, le speranze televisive della nonna, viste con unica, mitica forma di riscatto dalla miseria della vita di tutti i giorni. Un film pieno di stimoli, forse troppi, ma che trova nel cast un punto di forza.
Good Night (Buonanotte) dell’americano Sean H.A. Gallagher si svolge interamente in una notte, quella del ventinovesimo compleanno di Leight. Lei e il marito hanno comperato una nuova casa e invitano nove amici per festeggiare i due eventi. Tutto procede per il meglio, fra auguri e brindisi sino al momento in cui la festeggiata annuncia, come fosse cosa banale, di essere malata terminale di leucemia e di avere ancora pochi mesi di vita, per giunta fra atroci sofferenze. Sconcerto, incredulità, pianti e grida. Poi, tutto lentamente lascia spazio ad una sorta di baccanale fra ubriacature, spinelli, cocaina e danze frenetiche. Lentamente quasi tutti gli invitati lasciano la casa, i pochi che restano crollano ubriachi su pavimento e divani. A questo punto il marito droga e uccide la moglie. E’ un film durissimo che si avvia quasi come una delle tante riunioni conviviali in cui esplodono gli scheletri nascosti negli armadi, genere di cui il cinema nordico è maestro, ma qui il taglio diventa subito diverso, ad emergono non sono tanto e solo i contrasti fra i convenuti, quando il dramma di una giovane coppia innamorata e felice che si vede improvvisamente sbarrata la strada dalla grande falciatrice. Film d’attori come pochi trova in Adrienne Mishler una protagonista duttile e sensibile alla cui performance il film deve buona parte della riuscita.
Wild Duck (Anatra selvatica) e uno dei due film greci ammessi nella sezione competitiva e, diciamolo subito, è più generoso che convincente. Dimitri è sull’orlo del fallimento economico e personale, tira avanti a fatica mettendo le sue abilità di tecnico telefonico al servizio degli imprenditori che vogliono sfuggire allo spionaggio industriale. Un giorno s’imbatte in un’antenna potentissima destinata a captare le conversazioni di molti utenti nascosta in un appartamento di un condominio borghese. I vicini non sospettano nulla, ma una donna si è ammalata di cancro, forse proprio per le radiazioni rilasciate dal pericoloso impianto. Il tecnico entra in crisi e dopo molte esitazioni (troppe) avvisa gli inquilini che si presentano in massa a fronteggiare i tecnici – spioni quando arrivano per revisionare il marchingegno. Il regista unisce temi personali – la crisi del protagonista – con elementi di vasta risonanza politica, ma così facendo non rende un buon servizio all’opera che appare confusa e continuamente ondivagante fra psicologismo e critica sociale. In altre parole un materiale pasticciato e ambiguo.
Vi (Noi) dell’iraniano naturalizzato svedese Mani Maserrat è il ritratto di una nevrosi di coppia che costringe due amanti a non lasciarsi, ma neppure a vivere assieme. Ida ha un fisico minuto ed è spaesata e incerta quando inizia il nuovo lavoro di insegnante in una scuola media. Sin dai primi momenti gli alunni non la rispettano, non ascoltano i suoi ordini, fanno quello che vogliono. Al contrario Krister ha un aspetto imponente, è autoritario con gli studenti e aiuta la collega a ristabilire l’ordine in classe. Quasi subito si mettono assieme, vanno a vivere in una nuova cassa, iniziano una vita di coppia che, serena come appare, sembra nata sotto i migliori auspici. Tuttavia le reciproche gelosie e le indeterminatezza della donna minano progressivamente l’unione. La giovane, in particolare, non riuscendo a stabilire un rapporto paritetico con l’uomo, sceglie - forse inconsapevolmente - di utilizzare il sesso come merce di scambio all’interno della relazione di coppia. Gradino dopo gradino scontri e degradazione vanno avanti senza che nessuno dei due riesca ad arrestare la caduta. Il film si chiude a questo punto, con la donna che si è fatta umiliare vergognosamente (il compagno le ha urinato addosso, lei consenziente) e l’uomo che continua a ripeterle – dopo averla cacciata – ti amo, non andare via. E’ il ritratto di due nevrosi incurabili in cui aggressività e sottomissione vanno a braccetto. In questo senso è possibile parlare di film bergmamiano ma senza la complessità e profondità psicologica delle opere di quell’autore, sostituite qui da un’esteriorità di gesti e situazioni che sfiora la volgarità.
Mouton (Montone) dei francesi Marianne Pistone e Gilles Deroo è un film decisamente strano. In un certo senso sembra provenire dal passato, da quando – anni sessanta del secolo scorso – era in voga il cinema verità, i documentari lunghissimi della scuola ungherese e la macchina da presa era impugnata quasi come una penna per seguite i più reconditi palpiti di un qualche personaggio che, in generale, faceva cose banalissime. In questo caso la camera dei due registi pedina, in tre tempi, Orelien detto Mouton, giovane figlio di una madre alcolizzata alla quale è sottratto, mandato in un istituto per minori e qui trasformato in un cuoco appassionato e provetto. Durante una festa paesana – l’intera storia si svolge in un villaggio bretone sul mare – un tipo, in evidente stato alcolico, gli taglia un braccio con una sega meccanica. Privato di ogni possibilità di lavoro il giovane si allontana e scompare dando sporadicamente notizie di se. Coloro che sono rimasti, qui inizia la seconda parte, lo ricordano in più di un’occasione tanto che sembra quasi che tutto continui a ruotare attorno alla sua figura. Nell’ultimo, rapido, capitolo assistiamo, mesi dopo, a una sorta di ritorno alla vita ordinaria, con i ricordi del ragazzo che rimangono solo nella mente di alcuni e si fanno sempre più labili. Il film è girato interamente con la macchina a mano, il che significa inquadrature volutamente sporche, traballanti, sfuocate. Se un tempo questo tipo di cinema aveva dato vita a una vera e propria tendenza, oggi si colloca più sul versante delle operazioni intellettualistiche che non su quello della ricerca di nuove forme d’espressione. E’ un testo che si guarda anche con un fondo di simpatia, ma senza alcuna autentica emozione.
Melaza (Melassa) del cubano Carlos Lechuga ha per sfondo un villaggio poverissimo all’interno dell’isola. Qui un tempo centinaia di operai lavoravano per uno zuccherificio che ora è chiuso e sorvegliato da un’unica custode che si presenta sempre al lavoro in abiti eleganti – per gli standard di quella società – controlla che le macchine funzionino ancora e approfitta occasionalmente dei locali che le sono affidati per farne un’alcova in cui passare con il compagno quelle ore d’intimità non consentite dal minuscolo prefabbricato in cui abita con madre inferma e figlia sovrappeso. La vita è dura e gli slogan rivoluzionari lanciati in continuazione da un camion munito di altoparlante non sono meno beffardi dei pacchi di giornali che piombano ogni tanto dal cielo, pieni di parole d’ordine e delle cronache d’esaltanti successi, ma che nessuno legge. Per tirare avanti lei affitta un lettino a una prostituta che soddisfa le voglie di un dirigente locale, mentre il marito vende carne di contrabbando al vicini di casa. Naturalmente i piccoli traffici saranno scoperti e la polizia si mostrerà inflessibile con i miserabili violatori della legge. Alla donna rimarrà come unica soluzione quella di sdraiarsi sul materasso con cui faceva l’amore col compagno, ma questa volta per dare soddisfazione al piccolo burocrate che le ha promesso un vero lavoro. Il finale è decisamente amaro: nel giorno in cui si festeggiano le vittorie della rivoluzione tutto è canti (svogliati) e slogan (fasulli), ciononostante qualche timido sorriso sboccia sui visi del convocati, mentre dal cielo piove l’ennesimo pacco di giornali destinati ad ammuffire nel magazzino dell’ex – raffineria. Come dire che la vita continua malgrado tutto, considerazione amara e terribile per quella che si vantava essere stata la prima rivoluzione socialista d’America.
1999, Myeon-hue (1999 - I ragazzi irresistibili) 1999, del sudcoreano Tae-gon Kim che ci riposta agli anni della fine del secolo scorso. Tre liceali in attesa di entrare all’università vanno a fare visita a un coetaneo - figlio di un faccendiere finito in prigione per gravi reati finanziari - che sta facendo il servizio militare in una lontana zona di montagna. Dovrebbe essere poco più che una gita di piacere, con venature da scappatella: l’auto su cui viaggiano è stata presa all’insaputa del padre del guidatore che, a sua volta, ha appena preso la patente. E’ la vigilia di Natale e il soldato ottiene un permesso di poche ore per festeggiare con gli amici, ma tutto finirà in un bagno di tristezza in compagnia di prostitute non sempre avvenenti, grandi mangiate, abuso d’alcol e mancata consegna di una lettera dell’ex fidanzata del coscritto, cosa che, formalmente, avrebbe dovuto essere la ragione della trasferta. E’ il classico film sul tempo passato, sulle occasioni che sembravano fantastiche e si rivelano banali e tristi. Non ci sono grandi novità, ma occorre riconoscere che questa sorta di Grande freddo (The Big Chill, 1983 regia di Lawrence Kasdan) orientale e non funerario mette a segno non pochi colpi, soprattutto in direzione dell’autoritarismo militare che serpeggia nel paese e la malinconia che segna giovani privi di veri orizzonti se non quelli della carriera e dell’arricchimento.
La chuplica del diablo (Il liquore del diavolo) di Ignacio Rodriguez è una di quelle opere che segnalano la forza del cinema cileno. Eladio è un anziano imprenditore, ferocemente anticomunista e sull’orlo del fallimento. Fabbrica con successo decrescente una sorta di grappa nazionale che nessuno più compera. In un ultimo tentativo di risalire la china prende con se un nipote sfaticato e marginale, ma neppure questo riesce a raddrizzare le cose. Ormai il mercato è sottoposto a regole precise, non si possono vendere le cose alla chetichella, come un tempo, e anche il tentativo di piazzare le bottiglie per strada a fiere e rodei non ottiene successo. Inutile insistere, un’epoca è finita e non c’è più spazio per gli artigiani della produzione. Dopo una lunga teoria di fallimenti, al maturo distillatore rimane solo la strada del chiudere bottega e, forse, la sua stessa vita. Il film è interpretato superbamente da Jaime Vadell e tratteggia con dolore e lucidità la fine di un’intera stagione travolta dall’industrializzazione di massa, anche nel campo degli alcolici. Il beveraggio che il distillatore s’incaponisce a produrre nasce da una formula varata molti anni prima mettendo assieme alcol e una piccola quantità di polvere da sparo. Questa mistura appare citare un passato in cui il bere e il totalitarismo militare andavano a braccetto. Un periodo (definitivamente?) chiuso che solo un vegliardo rimasto fuori dal procedere della storia può continuare a rimpiangere.
Suzanne dalla francese Katell Quillévéré. E’ il ritratto doloroso di una giovane che, per amore, percorre in discesa l’intera scala sociale. La regista la segue dalla prima adolescenza quando, orfana di madre ma con accanto una sorella minore molto equilibrata, si trova a dover affrontare un gravidanza indesiderata. Partorisce un maschio, poi s’innamora di un trafficante di droga che le fa fare un’altra figlia e la trascina nella latitanza. Col passare degli anni perde sia la sorella, morta in un incidente stradale, sia l’affetto del padre, un camionista solido e razionale. Conoscerà la prigione, il figlio le sarà sottratto e si troverà ancor più sola. Il suo gesto finale, quello di denunciarsi al poliziotto che le sta controllando i documenti, assomiglia assai più che a un pentimento all’esplodere di una stanchezza del vivere che le ha chiuso ogni via d’uscita. Film come questo richiedono un contributo fondamentale all’rattrice che ricopre il ruolo principale e la giovane Sara Forestier mostra di disporre più che a sufficienza delle doti necessarie a sostenere un ruolo tanto importante e difficile.
Anche Zázrak (Miracolo) del ceco Juraj Lehotský ha al centro la figura di una giovane marginale. Ela è costretta dalla madre, che preferisce il suo ultimo amante alla figlia, ad entrare in una sorta di collegio assai simile ad un carcere minorile. In questo correzionale scopre di essere incinta, ma il brutale fidanzato non l’aiuta certo, anzi cerca persino di venderla come prostituta ad una banda di trafficanti di donne. Più che decisa a far adottare l’essere che porta in grembo, ci ripenserà subito dopo il parto e, forse, lo terrà con se. Il film descrive impietosamente una società, quella ex socialista, in cui tutto è diventato merce e gli esseri umani si comperano e vendono non meno delle cose. E’ un testo tetro e terribile, che sottolinea ancora una volta che, se prima si stava male, oggi la situazione non è migliorata di molto.
Come spesso capita nei festival l’opera più signicativa e importante è arrivata alla fine. Al-khoroug lel-nahar (si potrebbe tradurre Giorno per giorno ed è il titolo del Libro dei morti degli antichi egizi) di Hala Lotfy mette in scena un’egiziana ancora giovane schiacciata da una terribile condizione familiare. Suo padre è paralizzato e necessita di cure continue, sua madre pretenderebbe che lei si dedicasse interamente all’infermo. Suad, questo il suo nome, assiste il malato con malcelata impazienza, si scontra con la mamma, sente sempre più pesare una condizione che le sottrae ogni possibilità di vivere un’esistenza autonoma. La sua è una vita che si misura con ambienti miserabili e che, una volta uscita di casa, la costringe a fronteggiare un panorama sociale ancor più degradato. La tragedia esplode quando lei, contro le reprimende della madre, decide di uscire per andare a farsi aggiustare i capelli. Starà via solo poche ore durante le quali scambia alcune telefonate misteriose che lasciano supporre una tormentata storia sentimentale celata a tutti. Durante questa sua uscita il genitore cade dal letto e finisce in coma in ospedale. Sembrerebbe l’esplodere di una disgrazia, ma la maniera con cui la donna inizia a parlare con la made di possibili funerali del genitore, che è ancora vivo, lascia supporre una sorta di liberazione da una condizione d’insopportabile schiavitù. E’ il ritratto doloroso della condizione di una donna che non ha margini di manovra, stretta come è fra l’oppressione familiare – la lunga parte iniziale con la cura del paralitico è fisicamente insopportabile – e quella sociale. A questo proposito un ruolo rivelatore lo hanno sia il dialogo con l’altra passeggera del minibus, che le chiede se il non essere velata non le porti sfortuna, sia la visita alla moschea in cui un sacrestano la fronteggia imponendole di coprirsi i capelli. Un film angosciante che racconta l’oppressione di una donna che altro non è se non lo specchio di milioni di repressioni quotidiane.
I eonia epistrofi tou Antoni Paraskeva (L’eterno ritorno di Antonis Paraskevas) della regista greca Elina Psykou, ha al centro un famoso e inossidabile conduttore televisivo che scompare misteriosamente. In realtà, con l’aiuto di un amico, si è nascosto in un lussuoso albergo, chiuso per la stagione invernale, in una cittadina di mare. I media sono in allarme, le ipotesi si moltiplicano, anche se la più accreditata ruota attorno alla possibilità di un rapimento a scopo di estorsione. Intuiamo, da brani di telefonate che il fuggitivo scambia con il complice, che lo scopo della messa in scena dovrebbe essere quello di rilanciare la popolarità del divo. Solo che, trascorsi una ventina di giorni, la notizia prede mordente, tutti continuano a fare il loro lavoro come prima, i giornali relegano il fatto nelle pagine interne. Allora il recluso volontario inizia ad andare in paranoia, sino ad abbandonare il suo rifugio dorato, trasformarsi in barbone vero, tagliarsi un dito per rilanciare la tesi del rapimento, aggredire un agricoltore nella cui serra era penetrato per trovare qualche cosa da mangiare e che lo aveva riconosciuto. E’ una sorta di apologo sull’ossessione della fama e sul trauma della perdita di riconoscibilità. Un tema importante, ma che la regista sviluppa perdendo troppo tempo in situazioni ripetitive, che non aggiungono nulla al discorso, e trascurando di sviluppare più a fondo il tema. Sembra di assistere a un cortometraggio troppo dilatato, un testo che parte bene, ma si perde per strada senza riuscire a trovare una direzione precisa.
Miglior film lungometraggio – Alessandro d’oro Theo Angelopoulos
LA JAULA DE ORO (La gabbia dorata) di DIEGO QUEMADA–DIEZ (Messico – Spagna, 2013)
Premio speciale della giuria – Alessandro d’argento
SUZANNE di KATELL QUILLÉVÉRÉ (Francia, 2013)
Premio speciale della giuria per l’originalità e l’innovazione – Alessandro di bronzo
PELO MALO (Cattivi capelli) di MARIANA RONDÓN (Venezuela, 2013)
Premio alla migliore regia
DIEGO QUEMADA–DIEZ regista de LA JAULA DE ORO (La gabbia dorata, Messico – Spagna, 2013)
Premio alla migliore sceneggiatura
TAE-GON KIM per il testo di 1999, MYEON-HUE (1999 – I ragazzi irresistibili) di Tae-gon Kim (Corea del Sud, 2012)
Premio alla migliore attrice
SARA FORESTIER per la sua interpretazione in SUZANNE di Katell Quillévéré (Francia, 2013)
Premio al miglior attore
Ex aequo
CHRISTOS STERGIOGLOU per la sua interpretazione in I AIONIA EPISTROFI TOU ANTONI PARASKEVA (L’eterno ritorno di Antonis Paraskevas) di Elina Psykou (Grecia/Repubblica Ceca, 2013)
JAIME VADELL per la sua interpretazione in LA CHUPILCA DEL DIABLO (Il liquore del diavolo) di Ignacio Rodríguez (Chile, 2012)
Riconoscimenti artistici
Per il contributo come attore di secondo ruolo
FRANÇOIS DAMIENS per la sua interpretazione in SUZANNE di Katell Quillévéré (Francia, 2013)
Menzione special per la qualità della fotografia
MAHMOUD LOTFY per AL-KHOROUG LEL-NAHAR (Giorno per giorno) di Hala Lotfy (Egitto / Unione degli Emirati Arabi, 2012)
Premio della critica (FIPRESCI)
Concorso internazionale
PELO MALO (Cattivi capelli) di MARIANA RONDÓN (Venezuela, 2013)
Sezione cinema greco
I AIONIA EPISTROFI TOU ANTONI PARASKEVA (L’eterno ritorno di Antonis Paraskevas) di Elina Psykou (Grecia/Repubblica Ceca, 2013)
Premo per i valori umani concesso dalla televisione del parlamento ellenico
LA JAULA DE ORO (La gabbia dorata) di DIEGO QUEMADA–DIEZ (Messico – Spagna, 2013)
Premio del pubblico concesso dalla birreria Fischer
Concorso internazionale
LA JAULA DE ORO (La gabbia dorata) di DIEGO QUEMADA–DIEZ (Messico – Spagna, 2013)
Sezione del cinema greco
I TELEFTEA FARSA (Un ultimo scherzo) di VASSILIS RAISIS (Grecia, 2013)
Sezione sguardo sul cinema balcanico
SVECENIKOVA DJECA (I figli del prete) di VINKO BREŜAN (Croazia, 2013)
Sezione orizzonti aperti
PAPUSZA di JOANNA KOS-KRAUZE e KRZYSZTOF KRAUZE (Poland, 2013)
Premi Agora
Al progetto THE SEA AND ITS WAVES (Il mare e le sue onde) di Liana Kassir e Renaud Pachot (Libano/Francia)
La giuria ha anche disposto il premi a sua disposizione del francese CNC (CENTRE NATIONAL DU CINEMA ET DE L’ IMAGE ANIMÉE) di 7.000 euro al progetto
A HISTORY OF WOMEN (Una storia di donna) di Ülkü Oktay (Turchia)
E decretato una menzione speciale al progetto
THE VETERAN (Il veterano) di Zacharias Mavroeidis (Grecia)
Il premio dell’Istituto Mediterraneo per il cinema è andato al progetto
THE SATELLITES (Il satellite) di Nenad Mikalacki (Francia/Serbia)
Il premo per il lavoro in sviluppo di 70.000 euro in servizi di postproduzione
è andato al film:
NEXT TO HER (Vicino a lei) di Asaf Korman (Israele)
< Prec. | Succ. > |
---|