21 Ottobre 2013
I due titoli presentati oggi per la rassegna Punto de Encuentro non sono stati proprio entusiasmanti e ambedue giocano con l’impegno sociale per proporre prodotti di scarsa qualità. Las búsquedas (Le ricerche, 2013, Messico) è opera seconda del trentacinquenne salvadoregno, ma cittadino messicano, José Luis Valle. L’anno prima aveva debuttato con Workers (Lavoratori, 2013) che ha ottenuto buoni riscontri da parte della critica e ottenuto, al Festival di Guadalajara, il premio Mezcal per la migliore pellicola messicana. Si è laureato al Centro Universitario di Studi Cinematografici (CUEC) e ha debuttato nel 2009 con il documentario El milagro del Papa (Il miracolo del Papa, 2009), presentato in anteprima al Festival di Locarno. Con queste credenziali, ci si poteva attendere un prodotto quantomeno interessante e, invece, nei settantasette minuti della sua durata domina la ripetitività, si esemplificano luoghi comuni, si raccontano due storie non bene delineate che trovano un punto d’incontro. Forse conscio della qualità del prodotto, nei titoli di coda ha precisato che il film è costato solo millecinquecento dollari americani, è stato interpretato gratuitamente da cinque attori e non è stata usata luce artificiale per le riprese durate solo una settimana. Tutto questo può portare alla benevolenza ma, assistendo a un prodotto in cui latita la sceneggiatura, l’interpretazione e la regia il giudizio non può che essere negativo. Un uomo, apparentemente senza problemi, risolve e chiude tutte le questioni che ha in sospeso, pulisce la casa, ritira i vestiti al lavaggio a secco, paga i debiti e compra anche la frutta adorata dalla moglie che lui ama. Poi, sempre senza ragione apparente, si suicida. La sua morte giunge inaspettata e la moglie, impreparata a questo evento, se ne chiede il motivo. Ulisse vende porta a porta i grossi recipienti di acqua denaturalizzata e così conosce la donna. Anche lui è molto scosso perché viene derubato del portafoglio in cui teneva l'unica foto di figlia e moglie morte per mano di malviventi; cerca per anni il responsabile di quel furto e, nel contempo, nasce qualcosa di più di un’amicizia con la donna. Il finale aperto vede l’uomo su di un deposito di spazzatura puntare la pistola contro il taxista in cui riconosce il ladro. Logica narrativa carente, un bianco e nero poco espressivo, interpreti che probabilmente improvvisano, due entità che forse trovano assieme una ragione di vivere ma, prima di questa loro complicità contro i mali della vita, non sembravano particolarmente provati.
Malak (idem, 2012) è opera prima del quarantaquattrenne marocchino Abdeslam Kelai molto impegnato nel sociale. Grazie ad una borsa di studio del National Institute of Social Action, si laureato in informatica e filmaking. Fino al 2002 ha lavorato in una ONG che sviluppa progetti sociali e umanitari. Ha ideato e diretto due produzioni teatrali, ha scritto per la televisione e come regista, ha debuttato nel 2003 con il cortometraggio Happy Day. Diversamente abile, ha voluto raccontare una vicenda di una ragazza che, pur non avendo problemi fisici, soffre per riuscire a portare avanti una maternità non voluta ma accettata e poi difesa. Malak è una diciassettenne della buona borghesia che ha una relazione con un quarantenne probabilmente sposato che le promette vivranno sempre assieme. Quando scopre di essere incinta, l’uomo l’abbandona e la disprezza cacciandola via come fosse un’appestata. Da quel momento per la giovane inizia una vita difficile fatta di umiliazioni, violenza ma anche forza di carattere. Sviluppato più coi toni del melodramma che non col distacco emotivo necessario per raccontare una vicenda tanto difficile e dolorosa, è un film convenzionale in cui sono più importanti i pianti che non i dialoghi, i luoghi comuni che non lo sviluppo credibile di quanto narrato. L’inizio del film vede la ragazza urlante che si contorce per terra in una via elegante e pressoché nessuna la guarda. Giungono due ricche coppie e quando le mogli vogliono aiutarla, gli uomini proseguono in auto lasciandole lì ad affrontare la situazioni. Per tacitare la coscienza, le donne fermano un taxi e la portano davanti ad un ospedale abbandonandola. Questo è il tono di tutto il film che, alla fine, dimostra di essere realizzato per ottenere complicità emotiva da parte del pubblico. Vorrebbe essere un testo sugli emarginati, sulla diversità nella moderna società marocchina ed i tabù che le persone devono affrontare quando muovono da un comportamento socialmente non accettabile. Quello che i personaggi di questo film vorrebbero dimostrare è che l'umiltà e la comprensione non costano denaro: chi ha di meno sono spesso quelli più disposti a dare. Intenzioni tradite da quanto appare sullo schermo.
F.F.
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