21 Ottobre 2013
Proseguono le proposte della sezione Punto de encuentro questa volta con due titoli non esattamente convincenti. Hayatboyu (Una vita assieme) del turco Aslı Özge è uno studio minimalista del moderno malessere borghese che racconta senza fretta la vita di una coppia turca di mezza età verso il fallimento del loro rapporto a causa della mancanza di fiducia della moglie. Realizzata in maniera perfetta, risente proprio del limite di cercare un linguaggio raffinato, inquadrature glamour, l’attenzione all’esteriorità dimenticandosi dei veri contenuti. Ha la classica struttura narrativa che gli permette di essere invitata ai vari festival più per quello che si pensa possa dire e per la sua estetica che non per il suo valore assoluto. Manca la vitalità nella narrazione, le emozioni sono bandite, la noia è sempre dietro l’angolo. Questo film è l’opera seconda di questo autore e esce a quattro anni dal suo debutto con il valido Köprüdekiler (Uomini sul ponte, 2009). In quella occasione, aveva raccontato con bravura di tre uomini che si incrociano quotidianamente all'imbocco del ponte sul Bosforo, senza mai notarsi: il diciasettenne Fikret, di umili origini, cerca un lavoro serio ma nel frattempo vende illegalmente mazzi di rose per mantenersi all'ultima moda; il ventisettenne Umut divide la gestione di un taxi con un collega e lavora sodo per mantenere sempre alto il tenore di vita della moglie Camile che vive ampiamente al di sopra dei suoi mezzi; Murat è il poliziotto che dirige il traffico sul ponte e, per ovviare alla sua solitudine, è in cerca di una donna attraverso internet ma colleziona solo una serie di incontri senza prospettive. Questa volta il cineasta segue i travagli di un’artista contemporanea e del suo marito, un famoso architetto, che vivono da anni assieme senza che ci sia più la scintilla dell’amore. Lei teme che l’uomo la tradisca, non crede alle telefonate di lavoro, un sospetto ben presto confermata quando ascolta casualmente una delle sue chiamate segrete che mette in crisi il rapporto coniugale. Allo stesso tempo continua a preparare la sua prossima mostra, cerca di far fronte non solo ai suoi doveri professionali ma di essere apparentemente serena di fronte al coniuge, agli amici e alla figlia il cui rapporto appena nato con un archeologo sottolinea ancora di più la fine del matrimonio dei genitori. Il regista è nato a Istanbul nel 1975, si è laureato presso la Scuola di Comunicazione dell’Università della sua città e il Dipartimento di Cinema, Televisione e Arti della Facoltà dell’Università Marmara. Ha conseguito un master in filosofia presso l'Università Tecnica di Berlino, ha fondato assieme al produttore e sceneggiatore Emre Erkmen e a Dagmar Gabler la SEE. Ancora ora non riesce ad assimilare bene questa sua esperienza umanistica usandola attraverso un linguaggio cinematografico che si potrebbe definire d’essai, ma questo termine per lui sta solo a significare che arte-esteriorità uccidono i contenuti-emozioni.
Rock Ba-Casba (Rock della Casbah, 2012) è opera pretenziosa che rischia di offendere per come vengono trattati temi difficili che coinvolgono due popoli e l’opinione pubblica di tutto ilo mondo, una mina sempre innescata che rischia di creare forti dissapori del paesi pro e contro della politica delle due parti. E’ il 1989, anno della prima Intifada e le truppe israeliane sono inviate a Gaza per assistere la popolazione araba. Nel corso di un controllo di routine un soldato israeliano muore dopo che gli è stata lanciata da un terrazzo una lavatrice che lo ha schiacciato. Altri quattro soldati molto giovani, tra cui il migliore amico del caduto, vengono posti a vedetta proprio sul terrazzo incriminato per potere seguire da vicino il quartiere e risalire ai responsabili. Si crea una forte tensione, soprattutto con la famiglia della casa in cui si sono installato, ma il capo famiglia sta sempre attento a tenere buoni rapporti con gli occupanti, questo perché sa che l’assassino è suo nipote. C’è chi vorrebbe tornare in Olanda, chi a Tel Aviv, chi sogna la ragazza da potere amare e il giovane in crisi, colpevole di avere convinto l’amico che è morto ad arruolarsi. Su tutti un capo di bell’aspetto, forse esibizionista, forse semplicemente un esaltato. Si può capire il disagio di vedere raccontati temi tanto importanti con faciloneria. Per fare capire che tutti sono buoni ma che sono i casi della vita a farli divenire cattivi e nemici vi sono terrificanti scene di bimbo palestinese che gioca a morire e ad uccidere il suo nuovo amico soldato, l’asino dipinto coi colori di Israele, i ragazzini che lanciano sassi contro gli israeliani, ma anche sacchetti pieni di urina, madri piangenti ma con aspetto da signore all’ora del te, ballerine soldato che sembrano prostitute (e forse lo sono), una psicologa che finge di interessarsi dei problemi dei soldati e invece pensa solo a finire presto e burocraticamente il suo lavoro. Il regista israeliano quarantenne Yariv Horowitz, autore del film, a diciotto anni, è stato reclutato dall'esercito israeliano e ha fatto parte della Israël Defence Force in qualità di a fotografo, montatore e regista per l'Educational Corps Film Department. La maggior parte del servizio militare lo ha trascorso nei territori occupati. Dopo questa fase della sua vita, ha iniziato a dirigere video musicali e spot in Israele, Europa e Stati Uniti, così come vari documentari che sono stati acquisiti dalla emittente britannica Channel 4 e dalla statunitense Sundance Channel. Nel 2012 è stato eletto presidente della Directors Guild of Israel. Questo suo primo lungometraggio e, a suo dire, è basato sulle esperienze avute durante il servizio militare. Non mettiamo in dubbio la sua buona volontà, ma il risultato finale è a tratti irritante, comunque incapace di raccontare i drammi che hanno vissuto e stanno vivendo in quella parte del mondo.
F. F.
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