21 Ottobre 2013
Sito del festival: http://www.seminci.es
58ma Seminci - Semana Internacional de Cine - Valladolid
All’insegna del cinema indipendente, la 58 Seminci ha preso il via nella storica cittá dei re cattolici, consegnando spighe d’oro alla carriera a Jacques Audiard e a Paul Schrader per mano di Marisa Paredes. E subito il primo film della sezione ufficiale, Tots volem el millor per a ella, (Per lei tutti vogliono il meglio), secondo film di Mar Coll, trentadue anni, di Barcellona. La sua prima opera, Tre giorni in famiglia, vinse il premio Goya per la migliore regia nel 2009. Il direttore della Seminci, Javier Angulo, era preoccupato perché il film rischiava di non essere pronto per l’inaugurazione. Invece la prima mondiale si è tenuta ieri sera accolta da una marea di applausi. Non sempre il giudizio della critica coincide con quello del pubblico, tuttavia va detto che, questa crisi di una coppia sulla quarantina, scoppiata dopo quindici anni di matrimonio in seguito a un incidente nel quale lei ha subito lesioni fisiche e soffre di vuoti di memoria, scorre agevolmente.
Imperniato sulla presa di coscienza di, Geni, (Nora Navas) che dopo un anno di riabilitazione non desidera riprendere la vita di prima, il film naviga in un clima esistenziale. La donna, infatti, si rende conto che in quindici anni non ha mai viaggiato, e scopre anche l’atteggiamento superficiale del marito architetto. L’incontro con una compagna di liceo, donna libera e forte rientrata da poco dalla Germania, e in cerca di lavoro, le suggerisce un futuro differente. Un susseguirsi di scene di famiglia e di piccole ribellioni della protagonista scorrono in maniera pacata fino alla fine, poco piú di cento minuti. E qui si ha la sensazione di una spaccatura. Una scelta libertaria, sicuramente impraticabile, romantica e improbabile, chiude il film. La protagonista lascia tutto e tutti per iniziare una nuova vita altrove, malgrado i suoi problemi di salute, fisica e mentale.
In concorso anche l’anteprima di un altro film spagnolo, Presentimientos (Presentimenti) di Santiago Tabernero. Sceneggiatore che ha passato da poco la cinquantina, vinse il premio del pubblico della 50 Seminci col film Vida y color (Vita e colore). Da un romanzo di Clara Sánchez, che ha appena vinto il Premio Planeta, il regista affronta un’opera complessa che si svolge su piú piani. Due giovani della classe media, Julia e Felix, sposati da poco e con un figlio di pochi mesi, vanno in vacanza al mare per rinforzare un legame che sta perdendo colpi. Giunti al club vacanze, Julia prende la macchina per recarsi in farmacia. Un violento temporale la porta fuori strada, le rubano la borsa, e lei si ritrova vicino a un faro, senza soldi e senza benzina. Successivamente la donna è in coma in un ospedale da dove informano il marito. Durante la degenza assistiamo, in flash back, alle disavventure che ha subito, alle insistite profferte di un playboy e alle reiterate ricerche del bungalow, uguale a centinaia, e praticamente introvabile. Felix, dapprima incredulo e sorpreso, avvia poi ricerche per risalire all’incidente. Il film segue i due racconti fino a intersecarsi nel finale. La laboriosa narrazione iniziale tende ad avviarsi su binari piú agevoli. La disavventura, tra realtá e irrealtá, si configura come una cronaca non bella, né brutta, di un momento di crisi interpretato da Marta Etura e da Eduardo Noriega.
R.F.
In un anno di crisi, la SEMINCI riesce nonostante tutto a garantire la qualità di sempre proponendo il ricco programma che si affianca alla sezione ufficiale. Il più importante è Punto De Encuentro (Punto d’incontro) dove sono presentate opere prime e seconde in cui la qualità di intenti degli autori è sempre presente. Divisa tra lungo e cortometraggi, fornisce sempre interessanti spunti per vedere cosa si sta realizzando nelle varie parti del mondo, con una certa attenzione alla produzione latino americana e spagnola. Tra i lungometraggi nove sono opere prime e sei opere seconde, i corti sono in tutto tredici. Il film canadese Whitewash (Imbiancare, 2013) è diretto dal noto attore televisivo e teatrale nonché’ pubblicitario Emanuel Hoss-Desmarais, qui alla sua prima regia di un lungometraggio. E’ un’opera claustrofobica ambientata completamente dentro e sotto la neve del lunghissimo inverno canadese con due personaggi che interagiscono tra loro in maniera drammatica. E’ un dark movie dalla classica scrittura in cui piano piano si scopre la logica di quanto accade ma che non sempre riesce a convincere per certe scene che seguono solo la contorta logica del protagonista e del regista - sceneggiatore. Il film incuriosisce soprattutto chi conosce i precedenti del regista che negli ultimi otto anni ha diretto spot televisivi dal taglio particolarmente glamour con cui ha vinto riconoscimenti internazionali. Tre dei suoi lavori sono stati inseriti nel Cannes Advertising Awards e ha vinto numerosi premi ai Marketing Awards di Toronto, Londra e l'annuale Festival Internazionale della Pubblicità di New York. Premesse ottime ma non in grado di garantire gli stessi livelli di eccellenza nel suo passaggio al cinema. Infatti, luce e buio si alternano nella narrazione che non sempre riesce a tenere desto l’interesse. Siamo nel Québec e tutto è neve. Bruce è disperato. Sua moglie è morta e lui ha perso il lavoro. Sta semplicemente cercando di sopravvivere quando incontra Paul e solo troppo tardi si rende conto che questa persona non è quello che sembra e che tutto probabilmente finirà in tragedia. Quando il conflitto tra loro porta alla morte involontaria, ma forse desiderata di Paul, Bruce si ritrova ancora più isolato nei boschi alle prese con il senso di colpa e l’essere in una prigione naturale da cui non può sfuggire. Lo sviluppo narrativo ci propone alcuni momenti poco felici, in cui è difficile trovare logica in quanto fatto e detto dal protagonista. Rischia di farsi riconoscere andando in negozi, sposta il cadavere di Paul con incoscienza, decide una linea di vita che quasi sicuramente lo porterà alla morte. Interpretato magistralmente dal cinquantatreenne Thomas Haden Church, il film ha comunque fascino e, alla fine, dona più di un argomento di discussione.
Una bellissima sorpresa si è avuta con il film messicano Tercera llamada (Chiamata finale, 2013) opera seconda di Francisco Franco il cui film del debutto, Quemar las naves (Bruciare le navi, 2007) era stato presentato nella stessa sezione alla cinquantaduesima edizione del SEMINCI. Direttore della compagnia teatrale della Scuola dell'Università Autonoma della sua città natale, Aguascalientes, ha studiato regia presso CUEC e partecipato a workshop sulla direzione degli attori della Facoltà di lettere e filosofia UNAM. Ha lavorato come assistente alla regia prima di iniziare a lavorare come attore e regista in diverse produzioni teatrali. Questa sua conoscenza assoluta del teatro la si riscontra perfettamente in questo film che rappresenta il tragicomico dietro le quinte di una commedia che la regista vorrebbe molto innovativa rinunciando per questo anche all’apporto di noti attori che garantirebbero buoni incassi. La filosofia del film è tutto in questo credo: il teatro è un atto di fede. Perché tutto funzioni gli attori, il regista e i tecnici devono credere in quello che stano facendo. Una società messicana sponsorizza la presentazione del Caligola di Albert Camus per un festival internazionale. Un testo che parla di un imperatore romano visto e riletto da un esistenzialista francese, riscritto e interpretato dalle situazioni sociali bisogni messicani e la nevrosi che in questo periodo quella società sta vivendo. Sembra che tutto vada per il meglio ma la regista entra in crisi anche matrimoniale, la diva si trova una parte ridota a poche battute, il famoso attor giovane viene è, il vecchio attore non è in grado di memorizzare il testo, la produttrice e sempre più tesa e costantemente ubriaca, i tecnici offesi per come sono trattati affittano le scenografie a un locale gay. Come se questo non bastasse, Caligola è interpretata da una donna figlia di una famosa attrice che da anni è finita nel dimenticatoio. Ciononostante il miracolo avviene e tutti, con lo spirito che solo il teatro riesce a creare, trovano la voglia di lavorare assieme mentre si apre il sipario anche se sul palcoscenico nulla è pronto e le maestranze continuano a insultarsi. La presenza del pubblico crea il miracolo e due signore bene, commentando l’iniziale caos sicuramente non voluto dalla regista, commentano che deve essere un’opera moderna. Attori ai massimi livelli, tante risate, tanti momenti drammatici. A tratti è convenzionale, il finale buonista forse non accontenta il cinefilo, ma lo spettacolo è garantito e, forse, anche il premio del pubblico. Interessanti i cinque minuti creativi della regista in cui lei visiona autentici documenti in italiano sul fascismo perché’ la sua prima idea era proprio quella di creare un Caligola tra l’Impero Romano e il ventennio.
F.F
Fuori concorso è arrivato al festival The Canyons di Paul Schröder. Cinque anni dopo Adam Resurrected (Adamo risorto), il regista Usa ha realizzato un film scritto da Bret Easton Ellis da un suo romanzo. Partendo da un finanziamento di duecentomila dollari e impegnando cinque giovani attori, il film parla di relazioni pericolose nel mondo del cinema di serie B. Purtroppo sembra che il romanziere abbia scoperto l’acqua calda: scambio di coppie e ammucchiate stile anni Sessanta, agevolate oggi dall’impiego del telefonino. Il pornoattore, Ryan (James Deen) ha una relazione con Tara, ma lei si mette con Christian, giovane produttore psicopatico, figlio di papà. Allora Lui inizia una relazione con Gina. I quattro lavorano a un film di terrore, ma non sanno delle tendenze omicide di Christian, che uccide una vecchia fiamma che ha appena raccontato a Tara il suo comportamento sadico. Christian tenta di far incolpare Ryan, ma riesce soltanto a farla franca imponendo a Tara di fornirgli un alibi. Sono novantanove minuti molto parlati e interpretati da giovani attori abbastanza anonimi, eccezion fatta per la partecipazione di Gus Van Sant nei panni di uno strizzacervelli.
Due i film americani in concorso, e con temi paralleli. Night moves (Movimenti notturni), quinto film di Kelly Reichardt è all’insegna dell’ecologia. E’ un testo lungo centododici in cui la regista descrive l’azione di tre giovani ecologisti che decidono di far saltare una centrale elettrica. Attivi in un centro agricolo, i tre si assentano una notte e riescono nell’impresa. Purtroppo l’esplosione provoca la morte di un turista. Le indagini della polizia e, soprattutto, i sensi di colpa della ragazza che ha partecipato all’azione creano disaccordo. La ragazza (Dakota Fanning) potrebbe raccontare tutto, ma durante un incontro-scontro col promotore dell’azione perisce in un incidente. Per molti aspetti cineasta di frontiera, questa cineasta, premiata in altri Festival, ha girato un film senza concessioni, con un budget minimo che include anche i due protagonisti, Jesse Eisenberg e Peter Skarsgaard. Lento a momenti, quasi a descrivere l’azione notturna in tempi reali, e con una notte che più buia sarebbe impossibile, il film riesce tuttavia a inviare il suo messaggio: la necessità di preservare l’ecosistema, ma anche i guasti, gli imprevisti e i sensi di colpa che accompagnano queste azioni dimostrative.
Tra film narrativo e documento anche Short Term 12, seconda regia di Destin Daniel Cretton. Nel centro di accoglienza del titolo vengono accettati adolescenti vulnerabili, autolesionisti o abusati in famiglia. Protagonisti due ventenni: Grace, violentata dal padre che lei è riuscita a far condannare, e un coetaneo adottato che controllano giovani difficili avvalendosi delle loro esperienze personali. Quando una ragazza piena di talento arriva nel centro, Grace la segue con particolare attenzione. Il forte carattere della giovane e le sue esplosioni autolesionistiche però la coinvolgono fino a farle rivivere il suo drammatico passato. Rigorosa e coerente, un’altra fiction che riesce a far passare un messaggio.
R.F.
Pioggia di applausi per due film in concorso, due opere differenti ma ambedue pieni di personaggi e di storie da raccontare con sentimento. Il primo, di prossima uscita in Italia, è la produzione italo-belga Marina di Stijn Coninx, che nel 1992 vinse qui la Spiga d’argento col film Daens. Il secondo, il film giapponese Tokyo kazoku (Una familia di Tokyo) di Yôji Yamada, già largamente applaudito alla Berlinale. Il primo è basato sull’autobiografia di Rocco Granata ed è un biopic che illustra il difficile rapporto padre-figlio, ma anche mette a nudo con coraggio e con rigore le durissime leggi che condizionavano nel dopoguerra l’immigrazione italiana in Belgio. Emarginati in baracche nel Limburgo di lingua fiamminga, agli immigrati era vietata qualsiasi forma di integrazione. Il contratto li obbligava a lavorare in miniera e conteneva una clausola che vincolava anche i loro figli, dopo i quindici anni, a scendere nelle gallerie. Stijn Coninx, muovendosi in bilico tra la pesante situazione sociale e alcuni interni di famiglia, narra in un paio d’ore la difficile formazione del giovane Rocco, bambino sradicato da un paese della Calabria, i contrasti col padre minatore, e la complicitá della madre nel suo tentativo di affermarsi in campo musicale. Donatella Finocchiaro e Luigi Lo Cascio interpretano i genitori di Rocco, l’esordiente Matteo Simoni, belga di origine italiana. Sarebbe troppo facile definirlo un film strappalacrime, ma va da sé che le dure condizioni di vita che precludevano agli immigrati qualsiasi affermazione sociale, e il miracolo di Rocco Granata che nel 1959 arrivò ad esibirsi al Carnegie Hall di New York, forniscano materia per un possibile melodramma. Tuttavia il regista muovendosi tra commedia e dramma sociale ha dato vita a una storia che avvince il pubblico anche se non apporta niente di nuovo al linguaggio cinematografico.
Diverso è lo sguardo disincantato che il regista Yôji Yamada getta su due anziani coniugi in visita a Tokyo dove vivono i tre loro figli. Omaggio al maestro Yasujiro Ozu di Tōkyō monogatari (Viaggio a Tokyo) da parte di un regista ottantaduenne, Tokyo kazoku intrattiene e incanta per circa due ore e mezzo scavando con mano lieve all’interno dei personaggi e facendo emergere caratteri e comportamenti che coinvolgono lo spettatore. Sessant’anni dopo il capolavoro di Yasujiro Ozu, il Giappone è cambiato. Il viaggio di Shukichi e Tomiko, da una piccola isola al cuore della moderna megalopoli, mostra le difficoltá di adattamento al nuovo, ma anche l’impoverimento degli affetti familiari in un mondo in crisi e in rápida trasformazione nel quale i giovani non hanno piú tempo per gli anziani. Una figlia parrucchiera li ospita un paio di giorni, poi offre loro tre notti in albergo perché dovrá ospitare colleghi per una riunione di lavoro. Il figlio medico delega alla moglie le incombenze dell’ospitalitá. Il piú giovane, considerato da tutti un disastro, si rivela invece attento e affettuoso. E sará proprio con la sua immagine di ragazzo dal cuore d’oro e con la conoscenza della sua compagna, una libraia semplice e sensibile, che l’anziana Tomiko prenderá congedo da Tokyo e dal mondo. Gli applausi non si sono fatti attendere, scroscianti e avvolgenti, come era stato anche per Marina. A questo regista non si puó che augurare un futuro alla Manoel de Oliveira e aspettare il suo ventesimo film.
In concorso anche il film catalano La por (La paura) di Jordi Cadena, sessantasei anni e una decina di film all’attivo. Torniamo dalle parti di Short Term 12 di Destin Daniel Cretton, agli abusi e violenze in famiglia. L’opera dura appena settantasei minuti, quasi tutti in un interno, e mostra la paura che regna in un piccolo nucleo familiare. E’ il padre a incutere angoscia all’adolescente Manel e alla sorellina di sette anni, e soprattutto alla moglie che riempie di percosse. Il ragazzo vorrebbe trovare un lavoro per portar via la madre e la sorella, ma la rabbia del padre, il cui silenzio incute il terrore, esplode in maniera incontrollabile. Film freddo e rigoroso, è una sorta di microscopio che ingrandisce, mettendo in evidenza, guasti quotidiani spesso nascosti dalle stesse vittime.
R.F.
Alla SEMINCI è notevolmente aumentato il numero degli spettatori giovani, segno che la scelta di proseguire come punto di riferimento del cinema d’autore in Spagna è molto gradito. Le sorprese, positive o negative, sono presenti maggiormente in Punto de Encuentro dove la prerogativa di essere opere prime o seconde permette di vedere spesso prodotti freschi, interessanti. Hide your Smiling Faces (Nascondete i vostri volti sorridenti, 2013) è film che fa pensare, crea tensione emotiva, fornisce spunti anche per personali esami di coscienza. Diretto dal debuttante Daniel Patrick Carbone, figlio di italiani di terza generazione nato nel New Jersey, racconta di una piccola comunità dove tutti si conoscono, in cui anche la più piccola variazione nei ritmi, nelle abitudini è notato e commentato. Due fratelli sono costretti a crescere fin troppo in fretta dopo la misteriosa morte di un amico. L'incidente ha sconvolto la vita apparentemente tranquilla del paese in cui vivono e destabilizza i rapporti tra i fratelli ed i loro amici, in una maniera strana, forse illogica, difficile da spiegare completamente. Alla luce del tragico incidente, le loro relazioni familiari cominciano ad essere sospettose e tetre, ciò che rende i fratelli, di nove e quattordici anni, quasi complici in un tentativo di sopravvivere da se stessi e dagli altri rifugiandosi nella natura che li circonda. La natura è il collante per ogni situazione narrativa: sa essere madre e matrigna senza nessuna possibilità di difendersi da essa. Il fiume sul cui greto i fratelli hanno scoperto il corpo del loro compagno, il ponte ad un arco che nasconde al suo interno magici spazi che i ragazzi pericolosamente usano per i loro giochi, il dubbio che la vittima sia caduta da lì e che fosse vittima di un tragico gioco, il timore del fratello minore che anche per lui ci potrebbe essere una fine di quel tipo. La descrizione di questo disagio è fatta con bravura in ottanta minuti in cui il pigro trascorrere del tempo viene messo in agitazione da piccoli elementi che riescono a destabilizzare qualsiasi certezza. Il regista ventinovenne, diplomato nella prestigiosa Tisch School of the Arts dell’università di New York, viene da esperienze nel cortometraggio e, nel 2008, il suo Feral è stato distribuito dalla Warner Bros. Nel 2012 questo cineasta è stato selezionato per partecipare all’Emerging Artists Visions Academy Film Festival di New York e ciò gli ha permesso di realizzare questo primo lungometraggio. Difficilmente in tempi brevi realizzerà un altro film, visto che ritiene di avere bisogno di altre esperienze, soprattutto nella stesura delle sceneggiature il che lo vede attivo anche in televisione. Il suo primo film è minimalista nella struttura narrativa, ma ha una carica emotiva notevole e coinvolge lo spettatore fino al momento in cui il regista decide di interrompere la narrazione con un finale aperto a mille sviluppi.
Russendisko (Discoteca russa, 2012) è sicuramente una delle sorprese più interessanti che fino ad ora ci ha proposto questo festival. La storia raccontata è tanto poco credibile da essere vera quantomeno nei fatti storici descritti. Basato sul omonimo best seller scritto da Wladimir Kaminer negli anni novanta ha interessato molto il cinema ma le difficoltà per trasferirlo sullo schermo hanno scoraggiato, dal 1996 al 2009, dieci sceneggiatori. Ci voleva l’incoscienza del quarantaduenne Oliver Ziegenbalg, eclettico elemento della vita culturale tedesca, a tentare questa avventura in cui nei tre personaggi principali ha posto molto di se stesso, soprattutto nella voglia di vivere a tutti costi una vita al limite bevendo, passando da un’avventura all’altra senza pensare ad eventuali conseguenze. Nella Berlino del 1989 tutti sono bene accetti. Subito dopo la caduta del muro si è diffusa la notizia che i cittadini ebrei dell'Unione Sovietica erano i benvenuti nella Repubblica Federale di Germania. Il giovane Wladimir ed i suoi amici di sempre Andrej e Mischa partono da Mosca per trovare una vita più gratificante a Berlino. E’ una città molto viva, tra le più gratificanti che un russo possa potere immaginare. Wladimir e Andrej ottengono un permesso di soggiorno di cinque anni, ma Mischa, che è russo ma non ebreo, ne ha uno per soli tre mesi. Con un po’ di soldi in tasca donati dalle autorità tedesche e di una camera in un residence dove in maggioranza sono russi, i tre amici iniziano la loro avventura nel nuovo mondo. Conoscono alcune ballerine di una compagnia off, una giornalista che scrive sui russi, iniziano a dedicarsi a commerci più o meno leciti ottenendo una certa agiatezza. Ma l’amore crea loro problemi, dissapori, momenti in cui tutto è messo in discussione. Per fortuna giungono i genitori di Misha che fuggono dalla Russia sempre meno vivibile per loro, e gli portano i suoi dischi più amati. Saranno questi che permetteranno loro di aprire il RUSSENDISKO, un locale che tutt’ora esiste a Berlino. Oliver Ziegenbalg si è laureato in Economia e Commercio presso l'Università di Karlsruhe mentre studiava cinema alla Hochschule für Gestaltung nella stessa città. Nel 1999 si è trasferito a Berlino dove ha iniziato a lavorare in serie televisive molto popolari, scrive testi per cabaret e teatro. Dei cinquanta racconti tutti con personaggi differenti di cui è composto il libro da cui il film è nato, ha tratto i suoi tre eroi. Tutta la musica che si sente è stata scelta assieme al disk jockey del locale citato ma circa la metà è stata poi riveduta da un famoso arrangiatore. Si respira aria goliardica, ci si diverte ma, alla fine, rimane poco di quello che era la vera vita berlinese di quegli anni. Gli interpreti sono scelti molto bene e ci sono occasioni di riso, come dire un film con tutti i pregi ed i difetti di un’opera prima troppo amata dall’autore per essere realmente riuscita.
F.F.
Proseguono le proposte della sezione Punto de encuentro questa volta con due titoli non esattamente convincenti. Hayatboyu (Una vita assieme) del turco Aslı Özge è uno studio minimalista del moderno malessere borghese che racconta senza fretta la vita di una coppia turca di mezza età verso il fallimento del loro rapporto a causa della mancanza di fiducia della moglie. Realizzata in maniera perfetta, risente proprio del limite di cercare un linguaggio raffinato, inquadrature glamour, l’attenzione all’esteriorità dimenticandosi dei veri contenuti. Ha la classica struttura narrativa che gli permette di essere invitata ai vari festival più per quello che si pensa possa dire e per la sua estetica che non per il suo valore assoluto. Manca la vitalità nella narrazione, le emozioni sono bandite, la noia è sempre dietro l’angolo. Questo film è l’opera seconda di questo autore e esce a quattro anni dal suo debutto con il valido Köprüdekiler (Uomini sul ponte, 2009). In quella occasione, aveva raccontato con bravura di tre uomini che si incrociano quotidianamente all'imbocco del ponte sul Bosforo, senza mai notarsi: il diciasettenne Fikret, di umili origini, cerca un lavoro serio ma nel frattempo vende illegalmente mazzi di rose per mantenersi all'ultima moda; il ventisettenne Umut divide la gestione di un taxi con un collega e lavora sodo per mantenere sempre alto il tenore di vita della moglie Camile che vive ampiamente al di sopra dei suoi mezzi; Murat è il poliziotto che dirige il traffico sul ponte e, per ovviare alla sua solitudine, è in cerca di una donna attraverso internet ma colleziona solo una serie di incontri senza prospettive. Questa volta il cineasta segue i travagli di un’artista contemporanea e del suo marito, un famoso architetto, che vivono da anni assieme senza che ci sia più la scintilla dell’amore. Lei teme che l’uomo la tradisca, non crede alle telefonate di lavoro, un sospetto ben presto confermata quando ascolta casualmente una delle sue chiamate segrete che mette in crisi il rapporto coniugale. Allo stesso tempo continua a preparare la sua prossima mostra, cerca di far fronte non solo ai suoi doveri professionali ma di essere apparentemente serena di fronte al coniuge, agli amici e alla figlia il cui rapporto appena nato con un archeologo sottolinea ancora di più la fine del matrimonio dei genitori. Il regista è nato a Istanbul nel 1975, si è laureato presso la Scuola di Comunicazione dell’Università della sua città e il Dipartimento di Cinema, Televisione e Arti della Facoltà dell’Università Marmara. Ha conseguito un master in filosofia presso l'Università Tecnica di Berlino, ha fondato assieme al produttore e sceneggiatore Emre Erkmen e a Dagmar Gabler la SEE. Ancora ora non riesce ad assimilare bene questa sua esperienza umanistica usandola attraverso un linguaggio cinematografico che si potrebbe definire d’essai, ma questo termine per lui sta solo a significare che arte-esteriorità uccidono i contenuti-emozioni.
Rock Ba-Casba (Rock della Casbah, 2012) è opera pretenziosa che rischia di offendere per come vengono trattati temi difficili che coinvolgono due popoli e l’opinione pubblica di tutto ilo mondo, una mina sempre innescata che rischia di creare forti dissapori del paesi pro e contro della politica delle due parti. E’ il 1989, anno della prima Intifada e le truppe israeliane sono inviate a Gaza per assistere la popolazione araba. Nel corso di un controllo di routine un soldato israeliano muore dopo che gli è stata lanciata da un terrazzo una lavatrice che lo ha schiacciato. Altri quattro soldati molto giovani, tra cui il migliore amico del caduto, vengono posti a vedetta proprio sul terrazzo incriminato per potere seguire da vicino il quartiere e risalire ai responsabili. Si crea una forte tensione, soprattutto con la famiglia della casa in cui si sono installato, ma il capo famiglia sta sempre attento a tenere buoni rapporti con gli occupanti, questo perché sa che l’assassino è suo nipote. C’è chi vorrebbe tornare in Olanda, chi a Tel Aviv, chi sogna la ragazza da potere amare e il giovane in crisi, colpevole di avere convinto l’amico che è morto ad arruolarsi. Su tutti un capo di bell’aspetto, forse esibizionista, forse semplicemente un esaltato. Si può capire il disagio di vedere raccontati temi tanto importanti con faciloneria. Per fare capire che tutti sono buoni ma che sono i casi della vita a farli divenire cattivi e nemici vi sono terrificanti scene di bimbo palestinese che gioca a morire e ad uccidere il suo nuovo amico soldato, l’asino dipinto coi colori di Israele, i ragazzini che lanciano sassi contro gli israeliani, ma anche sacchetti pieni di urina, madri piangenti ma con aspetto da signore all’ora del te, ballerine soldato che sembrano prostitute (e forse lo sono), una psicologa che finge di interessarsi dei problemi dei soldati e invece pensa solo a finire presto e burocraticamente il suo lavoro. Il regista israeliano quarantenne Yariv Horowitz, autore del film, a diciotto anni, è stato reclutato dall'esercito israeliano e ha fatto parte della Israël Defence Force in qualità di a fotografo, montatore e regista per l'Educational Corps Film Department. La maggior parte del servizio militare lo ha trascorso nei territori occupati. Dopo questa fase della sua vita, ha iniziato a dirigere video musicali e spot in Israele, Europa e Stati Uniti, così come vari documentari che sono stati acquisiti dalla emittente britannica Channel 4 e dalla statunitense Sundance Channel. Nel 2012 è stato eletto presidente della Directors Guild of Israel. Questo suo primo lungometraggio e, a suo dire, è basato sulle esperienze avute durante il servizio militare. Non mettiamo in dubbio la sua buona volontà, ma il risultato finale è a tratti irritante, comunque incapace di raccontare i drammi che hanno vissuto e stanno vivendo in quella parte del mondo.
F. F.
Fuori concorso nella sezione ufficiale, e già fuori concorso al Festival di Roma, merita tuttavia una citazione Centro histórico, omaggio di quattro registi alla prima capitale del Portogallo, Guimaráes, capitale europea della cultura lo scorso anno. Pedro Costa, Victor Erice e Manoel de Oliveira mettono a fuoco tre momenti della storia lusitana, dalle guerre africane alla chiusura di una grande industria tessile, fino al Portogallo attuale con visite turistiche della cittá storica. Aki Kaurismaki, invece, evidenzia la solitudine di un reastauratore senza clienti descrivendo la routine quotidiana dell’apertura e della chiusura di una piccola trattoria in una stradina senza sole. Novanta minuti che vanno dall’assurdo del bozzetto di Kaurismaki, attraversano aspetti storici del passato tracciati da Victor Erice e Pedro Costa, per sfociare in un’allegra e ironica commerazione firmata da Manoel de Oliveira.
Didattico, con un finale da thriller, e tante buone intenzioni Metro Manila del britannico Sean Ellis. Terzo film dopo Cashback (2006) e The Broken (2008), questo in concorso è stato realizzato nelle Filippine. Il regista illustra i pericoli ai quali va incontro una giovane coppia con due bambine che lascia le montagne del nord per cercare lavoro nella capitale. La chiusura di un’impresa tessile trasforma il giovane Oscar in agricoltore, ma il crollo del prezzo del riso lo riduce alla fame. Giunto a Manila e subito truffato, riesce tuttavia a trovare un posto di guardia privata grazie ai quattro anni nei quali ha servito nell’esercito. La moglie trova lavoro in una discoteca e le cose sembrano mettersi bene, ma presto i due giovani dovranno prendere atto della corruzione, delle truffe e dei raggiri ai quali non potranno sottrarsi. Il finale drammatico, e con una sorpresa da fiction Tv, è la somma di tante situazioni ambigue e della durissima lotta per la sopravvivenza nella megalopoli di uno dei paesi meno sviluppati. Bravi gli attori: Jake Macapagal, Althea Vega, John Arcilla.
Drammatiche anche le situazioni narrate in Omar di Hany Abu-Assad, prodotto da Palestina e Emirati Arabi, e premiato a Cannes nella sezione Un Certain Regard. Splendidamente interpretato da Adam Bakri, narra tensioni, inganni e tradimenti nei territori occupati. Omar è un giovane fornaio che spesso scavalca il muro, costruito dagli israeliani, per andare a vedere la ragazza dei suoi sogni. E`la sorella di un amico d’infanzia, il quale lo coinvolge in un’azione a tre per uccidere un soldato israeliano. Verrá catturato e torturato, ma non dirá niente. Tuttavia viene rilasciato sulla parola. Entro un mese deve far catturare il colpevole dell’omicidio. Leale, Omar dice agli amici le condizioni che gli hanno permesso di riacquistare la libertá. Pur denunciando le condizioni di dipendenza e di soggezione degli abitanti dei territori occupati, il film scava a fondo nel carattere del protagonista per mettere in evidenza i dubbi, le incertezze e i sospetti di un giovane innamorato che si trova al centro di un intrigo del quale non riesce a venire a capo. Incalzato dai servizi segreti israeliani, ricambiato da una ragazza che scopre essere corteggiata da un altro, sospettato di tradimento dagli amici, Omar passa di fuga in fuga sempre alla ricerca della veritá. Che non sará una sola, e che avrà un prezzo.
R.F.
Massimo Andrei è conosciuto soprattutto per la sua opera prima Mater Natura (2005) che aveva ottenuto un discreto riscontro di critica. Con Benur - Un gladiatore in affitto (2012) torna a indagare la vita degli emarginati, di chi vive al confine di una società sempre più individualista e arroccata nei propri interessi. Tratto dallo spettacolo teatrale di Gianni Clementi, narra una storia di normale povertà in cui tutto ruota attorno a tre personaggi, rispettando in questo l’originale teatrale sceneggiato dallo stesso drammaturgo. Il film racconta dell’incontro di una coppia formata da fratello e sorella con l'aggiunta di un bielorusso clandestino che è fondamentale per mettere in discussione i luoghi comuni che non permettono di dialogare, il tutto sullo sfondo della crisi economica che attaglia il paese. Titolo terribile per un film perfettibile ma interessante, una commedia in cui non si ride, ma si è costretti a pensare. Gente che si arrangia (l’italiano è figurante al Colosseo vestito da antico romano, lei lavora per un telefono erotico) e che sfruttano quest’uomo più sfortunato di loro. L’idea della donna, persona normalissima, che lavora per una chat erotica era presente anche in un film della serie Fantozzi, con la moglie che guadagnava in quella maniera per permettere al marito in pensione di fare un lavoro inutile, da lei segretamente pagato. Tuttavia in questo caso è il cardine della vicenda cui fa da contraltare il fratello, un ex stuntman che ha subito un grave incidente e si traveste da centurione per guadagnare qualche spicciolo davanti al Colosseo. Non riescono a pagare le bollette, rischiano lo sfratto ma arriva questo ingegnere bielorusso, clandestino, e lo incaricano di sostituire per una settimana l’ex cascatore. Il nuovo arrivato è inventivo, si massacra di lavoro e loro lo sfruttano ottenendo un certo benessere. E’ una favola amara con un finale riparatore, forse un po’ forzato, ma è anche un ritratto molto credibile della società che si protende verso il mondo dei nuovi poveri. Si respira un’atmosfera debitrice di certo neorealismo ma, soprattutto, delle tragiche commedie di Totò in cui si poteva vedere l’Italia più vera, senza censure che le grandi produzioni imponevano. Nicola (Nick) Pistoia è molto bravo, Paolo Triestino è mirabile mentre Teresa Del Vecchio è un po’ sopra le righe. Testo difficile, studio dei caratteri molto curato per un artista completo che qui ha firmato la sua opera seconda ma che spazia realmente in ogni dove della vita artistica italiana. Massimo Andrei è nato a Napoli nel 1967 ha conseguito la laurea presso l'Università Popolare dello Spettacolo. Ha lavorato con registi quali Giancarlo Cobelli, Antonio Calenda, Livio Galassi, Pierpaolo Sepe e i attori come Ernesto Calindri, Rino Marcelli e Carlo Giuffré per allestimenti destinati a lunghe tournèe. Nel 1997 si è laureato in Storia del Teatro e dopo gli studi drammatici presso l'A.I.A. (Atelier International de l'Acteur) di Parigi, ha seguito seminari di impostazione vocale e danza in Italia e all'estero. Ha lavorato per cinque anni nella compagnia teatrale di Vincenzo Salemme. Attore anche per il cinema, ha scritto, diretto e interpretato radiodrammi per la RAI, ha collaborato, come paroliere, per Nicola Piovani, Lino Cannavacciuolo e Germano Mazzocchetti. Non gli manca l’esperienza nelle serie televisive di buon riscontro quali Valeria medico legale, con Claudia Koll, regia di Francesco Lazzotti e Una Famiglia in giallo, con Giulio Scarpati sempre per la regia di Francesco Lazzotti.
Un’attenzione particolare i selezionatori del Festival la dedicano ai cortometraggi presentati in apertura delle proiezioni sia della Sezione Ufficiale che del Punto d’incontro. A loro è dedicata una giornata intera e molte sono le sorprese interessanti. Parlando di quanto visto fino ad ora, è d’obbligo segnalare alcuni titoli. Nadador (Il nuotatore, 2013, Spagna) di Dani de la Orden è una delicata vicenda in cui un tredicenne è innamorato di una ragazzina più vecchia di lui di un anno che è anche sua vicina di casa ma che non gli ha mai parlato. Si incontrano sempre nella piscina ma il giovane non riesce a tuffarsi e per questo è in crisi, Una notte si fa chiudere dentro, si lancia senza paura nell’acqua, prende un colpo alla testa e inizia a sognare di essere riuscito nell’impresa, che la ragazza finalmente gli parli e che si sia innamorata di lui, che la sua vita sia cambiata in meglio. Tuttavia lo sguardo disperato del bagnino che tenta di rianimarlo riporta alla realtà. Splendidamente girato quasi tutto in subacquea utilizzando tonalità azzurre e rendendo evanescenti le figura che nuotano con l’uso di bollicine che rendono ogni cosa irreale, il regista dimostra grande padronanza del mezzo filmico che utilizza narrativamente in maniera perfetta. Se si pensa che è giovanissimo e che questo prodotto è stato realizzato come prova d’esame della nota scuola di cinema spagnola ESCAC, da lui ci si può e deve attendere ancora di più.
Canis (Cani, 2013, Spagna) di Marc Riba e Anna Solanas non fa un segreto di essersi ispirato alle opere d’animazione di Tim Burton utilizzando atmosfere dark e uno splendido bianco e nero. Sono diciassette minuti intensi in cui Teo, il giovane protagonista, riesce a sopravvivere in una casa assediata da cani assassini e da altri animali non amichevoli. Non certo adatto ad un pubblico troppo infantile, riesce a creare in più di una occasione la paura.
Il canadese Subconscious Password (Parola chiave per entrare nel subconscio, 2013) del cinquantaduenne Chris Landreth è un’elaborazione di immagini realizzate con esseri in carne ed ossa particolarmente esilarante ma anche frustrante. Parla di un uomo che incontra una persona che lui dovrebbe conoscere ma di cui non ricorda il nome. Disperatamente cerca di prendere tempo mentre il suo cervello rotea in maniera folle collegando quel volto a personaggi celebri che a lui sembra abbiano il nome del conoscente. Undici minuti esplosivi, pieno di trovate realizzato con una splendida animazione.
L’ Aurore boréale (L’aurora boreale, 2013, Francia) dell'israeliano Keren Ben Rafael ha uno sviluppo che ricorda Tutto in una notte (Into the Night, 1985, Usa) di John Landis. Sono le tre di notte e padre raggiunge di soppiatto nella casa della figlia da poco trasferitasi a vivere da sola. E’ in camicia da notte, vorrebbe dormire anche se il padre la vuole portare ad ammirare una rara aurora boreale. Alla fine la ragazza accetta controvoglia, esce vestita come è e si apposta dentro l’auto col genitore in un bosco sulle rive di un fiume. Arrivano alcuni poliziotti che pensano alla ragazza come ad una Lolita in mano ad un pervertito, ovviamente non hanno documenti e sono pesantemente maltrattati, la ragazza è anche palpeggiata. Convinti della tesi dei due, i poliziotti si allontanano e la ragazza, appena arrivano su di una strada asfaltata, scappa dal padre. Quando giunge a casa sente la televisione che commenta lo splendore di quella alba magica vissuta da loro drammaticamente e non vista. Si ride ma si pena anche un po’ per questi scalognati protagonisti. La bravura del regista sta proprio nel perfetto mix tra comicità e tensione che ha saputo creare.
F.F.
Caroline Strubbe, belga quaratottenne che è stata premiata a Cannes dopve ga presentato Lost Persons Area (Lo spazio degli esseri perduti, 2009), ha presentato in concorso I’m the Same I’m an Other, (Io sono lo stesso, io sono un altro), seconda di una trilogia avviata con il film precedente. L'opera dura poco piú di cento minuti e riprende i personaggi della prima parte. Tessa, nove anni, i cui genitori si sono suicidati, e Szabolcs, l’amante della madre che ora sono in fuga verso la Gran Bretagna. Chi non ha visto il primo film assiste soltanto alla fuga in auto dei due, li vede attraversare la Manica e riparare in un piccolo appartamento sul mare. Sullo schermo sono messi in evidenza i cieli gravidi di pioggia, il vento e il gracchiare degli uccelli, osservati in larga parte dal chiuso dell’appartamento dove l’adulto tiene la bambina. Le relazioni tra i due sembrano buone, ma il trentenne costringe la piccola a non deve uscire. Con un assemblaggio di immagini girate in tempo reale, la regista descrive l’impaccio e le preoccupazioni dell’adulto e l’impiego del tempo della bimba che va dall’attenzione agli animali domestici, fuori e dentro l’appartamento, alla pulizia dei locali, a momenti di piccolo autolesionismo. Per quasi tutta la durata del film, la cinepresa riprende i movimenti dei due come uno scienziato che studi al microscopio la vita degli insetti. Molti spettatori sono usciti durante la proiezione. Altri sono rimasti per capire il rapporto tra i protagonisti, relazione che si svela soltanto nel finale. Proprio quando la bambina manifesta dell’affetto per il compagno di viaggio, questi è arrestato dalla polizia sotto l’accusa di aver sequestrato la piccola.
Sempre in concorso, un film che si direbbe una fiction Tv. Il marocchino Nour-Eddine Lakhmarki ha presentato Zero, cronaca della vita disastrata di Amine Bertale, poliziotto di Casablanca, il cui comportamento professionale gli ha valso il nomignolo del titolo. Privato dell’arma e assegnato a una scrivania dove redige lamentele e richieste di aiuto, il giovanotto sopporta anche il peso del padre, ex agente disabile e autoritario. Capro espiatorio dei capricci di un commissario corrotto e violento, è da questi controllato e punito quando tenta di arrotondare il salario intessendo piccole truffe con una giovane prostituta. Narrato in chiave di commedia, al limite di commedia nera, il film mostra un giovane irresoluto, tra obblighi domestici e orari d’ufficio. La svolta matura con la morte del padre e con l’incontro con una madre in lacrime alla ricerca della figlia quindicenne. Umiliato e bastonato, Zero non ha piú niente da perdere e decide di vender cara la pelle.
Tra i due estremi si situa Run & Jump, (Corri e salta) dell’americano di origine irlandese Steph Green. Si tratta di una finzione basata sul tentativo di recupero delle facoltá intellettive di un padre di famiglia. Conor Casey, colpito da ictus e tornato alla vita dopo essere stato in coma, si comporta come un adolescente. Sua moglie, Vanetia, accetta l’aiuto di Ted Fielding, psicologo americano giunto in Europa con una borsa di studio. La sua presenza è di sostegno alla famiglia, che include anche una bambina estroversa e un adolescente insicuro. La donna, che è forte, leale, ironica e capace di allegria, si lega d’amicizia con lo psicologo, un tipo formale e introverso. Sullo sfondo della vita di famiglia e dei lenti progressi di Conor, il film descrive il simpatico e innocente legame tra Vanetia e Ted. Che tale rimane in una vicenda priva di colpi di scena, scorrevole, senza infamia e senza lode.
Altro titolo in concorso la commedia francese Au bout du conte, (Alla fine del racconto) di Agnès Jaoui. Interpretato dalla stessa Jaoui, da Jean-Pierre Bacri, e da uno stuolo di giovani attori, (Agathe Bonitzer, Arthur Dupont, Benjamin Biolay). L’opera fa tesoro di racconti popolari per imbastire storie d’amore, di famiglie e di supestizioni. Laura, 24 anni, sognando il principe azzurro si trova improvvisamente innamorata di due giovani, un musicista e un critico famoso. Il padre del musicista è in paranoia perché una veggente gli ha detto che morirà il 14 marzo, data che gli è ricordata al funerale di suo padre, dove s’incontra col figlio con cui ha pessimi rapporti. Le cose non vanno bene neanche nella nuova famiglia. Dialoghi brevi, battute calibrate, e molta ironia per una commedia di centododici minuti servita con garbo a un pubblico conquistato.
R.F.
I due titoli presentati oggi per la rassegna Punto de Encuentro non sono stati proprio entusiasmanti e ambedue giocano con l’impegno sociale per proporre prodotti di scarsa qualità. Las búsquedas (Le ricerche, 2013, Messico) è opera seconda del trentacinquenne salvadoregno, ma cittadino messicano, José Luis Valle. L’anno prima aveva debuttato con Workers (Lavoratori, 2013) che ha ottenuto buoni riscontri da parte della critica e ottenuto, al Festival di Guadalajara, il premio Mezcal per la migliore pellicola messicana. Si è laureato al Centro Universitario di Studi Cinematografici (CUEC) e ha debuttato nel 2009 con il documentario El milagro del Papa (Il miracolo del Papa, 2009), presentato in anteprima al Festival di Locarno. Con queste credenziali, ci si poteva attendere un prodotto quantomeno interessante e, invece, nei settantasette minuti della sua durata domina la ripetitività, si esemplificano luoghi comuni, si raccontano due storie non bene delineate che trovano un punto d’incontro. Forse conscio della qualità del prodotto, nei titoli di coda ha precisato che il film è costato solo millecinquecento dollari americani, è stato interpretato gratuitamente da cinque attori e non è stata usata luce artificiale per le riprese durate solo una settimana. Tutto questo può portare alla benevolenza ma, assistendo a un prodotto in cui latita la sceneggiatura, l’interpretazione e la regia il giudizio non può che essere negativo. Un uomo, apparentemente senza problemi, risolve e chiude tutte le questioni che ha in sospeso, pulisce la casa, ritira i vestiti al lavaggio a secco, paga i debiti e compra anche la frutta adorata dalla moglie che lui ama. Poi, sempre senza ragione apparente, si suicida. La sua morte giunge inaspettata e la moglie, impreparata a questo evento, se ne chiede il motivo. Ulisse vende porta a porta i grossi recipienti di acqua denaturalizzata e così conosce la donna. Anche lui è molto scosso perché viene derubato del portafoglio in cui teneva l'unica foto di figlia e moglie morte per mano di malviventi; cerca per anni il responsabile di quel furto e, nel contempo, nasce qualcosa di più di un’amicizia con la donna. Il finale aperto vede l’uomo su di un deposito di spazzatura puntare la pistola contro il taxista in cui riconosce il ladro. Logica narrativa carente, un bianco e nero poco espressivo, interpreti che probabilmente improvvisano, due entità che forse trovano assieme una ragione di vivere ma, prima di questa loro complicità contro i mali della vita, non sembravano particolarmente provati.
Malak (idem, 2012) è opera prima del quarantaquattrenne marocchino Abdeslam Kelai molto impegnato nel sociale. Grazie ad una borsa di studio del National Institute of Social Action, si laureato in informatica e filmaking. Fino al 2002 ha lavorato in una ONG che sviluppa progetti sociali e umanitari. Ha ideato e diretto due produzioni teatrali, ha scritto per la televisione e come regista, ha debuttato nel 2003 con il cortometraggio Happy Day. Diversamente abile, ha voluto raccontare una vicenda di una ragazza che, pur non avendo problemi fisici, soffre per riuscire a portare avanti una maternità non voluta ma accettata e poi difesa. Malak è una diciassettenne della buona borghesia che ha una relazione con un quarantenne probabilmente sposato che le promette vivranno sempre assieme. Quando scopre di essere incinta, l’uomo l’abbandona e la disprezza cacciandola via come fosse un’appestata. Da quel momento per la giovane inizia una vita difficile fatta di umiliazioni, violenza ma anche forza di carattere. Sviluppato più coi toni del melodramma che non col distacco emotivo necessario per raccontare una vicenda tanto difficile e dolorosa, è un film convenzionale in cui sono più importanti i pianti che non i dialoghi, i luoghi comuni che non lo sviluppo credibile di quanto narrato. L’inizio del film vede la ragazza urlante che si contorce per terra in una via elegante e pressoché nessuna la guarda. Giungono due ricche coppie e quando le mogli vogliono aiutarla, gli uomini proseguono in auto lasciandole lì ad affrontare la situazioni. Per tacitare la coscienza, le donne fermano un taxi e la portano davanti ad un ospedale abbandonandola. Questo è il tono di tutto il film che, alla fine, dimostra di essere realizzato per ottenere complicità emotiva da parte del pubblico. Vorrebbe essere un testo sugli emarginati, sulla diversità nella moderna società marocchina ed i tabù che le persone devono affrontare quando muovono da un comportamento socialmente non accettabile. Quello che i personaggi di questo film vorrebbero dimostrare è che l'umiltà e la comprensione non costano denaro: chi ha di meno sono spesso quelli più disposti a dare. Intenzioni tradite da quanto appare sullo schermo.
F.F.
Sorprende il Belgio con un film dai toni surreali in concorso alla 58ma Seminci. In realtá Matterhorn del fiammingo Diederick Ebbinge, al suo primo lungometraggio a 44 anni, racconta una storia di solitudini e di ricerca di libertà interiore in una piccola comunitá calvinista. Racchiusa in ottantotto minuti, la vicenda di Fred, pensionato vedovo che ha cacciato di casa il figlio, mostra un personaggio metodico, osservante delle leggi e buon parrocchiano. L’incontro con Theo, un coetáneo sbandato che dopo un incidente si comporta come un bambino, cambia le sue abitudini. E accoglie in casa lo sconosciuto, quasi a voler riempire il vuoto lasciato dal figlio. Theo imita con molto talento e in maniera infantile i versi degli animali. Fred canta. Insieme si esibiscono ad alcune feste per bambini. La spontaneitá di Theo rompe i rigidi schemi della vita di Fred. La loro coabitazione, tuttavia, genera sospetti nei vicini. Quando Fred scopre che Theo è sposato, e che la moglie è contenta che abbia trovato un amico dopo l’incidente che lo vedeva protagonista di continue fughe, la nuova situazione spinge un compaesano che lo aveva criticato, a una sorprendente confessione. Non solo gliene voleva per aver sposato la donna che lui amava, ma era diventato aggressivo quando aveva accolto in caso Theo che già era suo amico. Al confine col teatro dell’assurdo, in una surrealtà che nasce dalla paranoia dei personaggi, René van’t Hof e Ton Kas interpretano in maniera originale Theo e Fred, protagonisti di un’avventura di libertá che è anche ricerca di affetti.
Ultimo film in concorso, l’argentino La reconstrucción (La ricostruzione) di Juan Taratuto, al suo quarto film dopo aver esordito nel 2003 con No sos vos, soy yo (Non siete voi, sono io). Tecnico di un impianto petrolífero, Eduardo deve trasferirsi alcuni giorni per lavoro a Ushuaia. Taciturno, l’abbigliamento trasandato e l’aspetto selvaggio, si incontra con un collega di vecchia data che lo invita in casa. Lui preferisce l’albergo, ma quando l’amico va in ospedale per un controllo, e non supera un’operazione che si è resa necessaria, diventa un punto di riferimento per la vedova e per le due figlie adolescenti. Interpretato da Diego Peretti, il film mostra un protagonista schivo e taciturno che giunto nell’estremo sud dell’Argentina vive un’esperienza che lo trasforma. Pensa di congedarsi dalla familia dopo il funerale, ma ritorna sui suoi passi. Accolto in famiglia, il suo apporto sará essenziale. In circa novanta minuti, Taratuto descrive il cambiamento che è soprattutto la ricostruzione interiore di un uomo con un trágico passato. Eduardo lo rivelerá alla vedova in un momento di crisi profonda della donna, per sottrarla allo scoramento. Girato nel culo del mondo, in una Ushaia ammantata di neve, il racconto scorre lieve svelando a poco a poco la natura di Eduardo, processo che assomiglia molto alla soluzione di un giallo.
R.F.
Come ogni anno, uno degli appuntamenti più attesi è la notte dei corti spagnoli presentati nell’ambito della rassegna Punto de Encuentro. Titoli che hanno avuto anche presenze in Festival internazionali, alcuni girati direttamente in inglese per evitare costi aggiuntivi per l’edizione internazionale. Sette cortometraggi diretti da Autori che spaziano tra i venticinque ed i sessanta anni, con varie presenze femminili. Il successo di questo paio d’ore di proiezione aumenta sempre più e, a causa dei solo trecento posti del Teatro Zorrilla, si è costretti a replicare almeno un paio di volte. Parlando con i direttori di Festival specializzati, l’invidia era facilmente leggibile anche se vi è anche l’ammirazione per chi, ogni anno presenta almeno una cinquantina di titoli quantomeno originali. I magnifici sette presentati in questa occasione non hanno deluso e dimostrano come questa forma cinematografica possa essere sempre più interessante, soprattutto per evitare che buone idee e potenzialità vengano disperse nei meandri della mancanza di finanziamenti. Hogar, hogar (Casa, dolce casa, 2013) del giovanissimo Carlos Alonso è divertente, imprevedibile, politicamente scorretto. Parla di un futuro prossimo, ma probabilmente molto vicino ai giorni nostri, dove una coppia, per salvarsi dalla Terra avvelenata, vive n un bunker attenti ad ogni rumore, pronti a difendersi. Lei vorrebbe un figlio, lui assolutamente no. Quando scarseggiano le provviste lui coraggiosamente esce allo scoperto e va a comperarli in un fornitissimo supermercato, strappando poi le etichette e sporcandosi di terra la tuta. Quando torna dalla moglie, tristemente le conferma che nulla è cambiato. Il marito vuole tenere solo per sé la moglie e non intende condividerla con un figlio né con amici: così facendo ha al suo fianco una prigioniera innamorata. Si ride ma in bocca rimane un sapore amaro.
Habitantes (Abitanti, 2013) è diretto dall’eclettica Leticia Dolera, trentaduenne catalana molto attiva come attrice di teatro e cinema ma anche brava danzatrice sia classica e moderna nonché cantante jazz e di musica leggera. Nel 2010 il suo corto A e B ha vinto il premio proprio a Valladolid. Viviamo come fossimo anestetizzati, immuni dal provare il dolore per gli altri, egoisti. La regista si domanda cosa accadrebbe se sparisse questa nostra difesa e cominciassimo a provare forti emozioni. Interpretato con bravura da José Luis Garcia Perez, fa pensare divertendo.
Inside the box (Dentro la scatola, 2013, Usa – Spagna) diretto da David Martín Porras non lascia indifferenti per quanto racconta e come lo racconta. Un agente di Polizia texano cerca di fermare una rissa e viene morso da uno dei contendenti; il ragazzo gli fa pena e non denuncia il fatto. Intanto, a casa non fa più all’amore con la moglie dopo che un mese prima lei ha partorito. Arriva a sorpresa agente della Polizia Fiscale che cerca di fargli confessare che un mese prima non aveva fatto il suo dovere omettendo di denunciare un caso così grave anche perché il feritore è affetto da AIDS. Giura che non era andata così, l’investigatrice gli fa fare gli esami di controllo e, quando lei esce, lui tristemente va in cantina dove ha una scatole con misteriose medicine che lui ingurgita con le lacrime agli occhi.
Meeting With Sarah Jessica (Incontro con Sarah Jessica, 2013), di Vicente Villanueva è divertentissimo, porta avanti ipotesi futuribili fantasiose ma possibili e, con un dialogo in cui emergono le rivalità tra le varie regioni spagnole, ha ricevuto molti applausi durante la proiezione. Una ragazza spagnola è la vincitrice di un concorso a cui hanno partecipato trenta milioni di donne e di gay il cui premio è una cena con nota star statunitense. La giovane ufficialmente è una sua fan e piano piano le fa capire che lei sa tutto di questa icona, compreso che è spagnola. La star inizia ad odiarla ma poi le racconta di Lady Gaga che in realtà sono quattro persone, che le Space Girls erano solo costruzioni visive, che i divi sono schiavi di perfide organizzazioni che decidono quello che devono o possono fare. Cinicamente poco convinta, vede la sua conterranea punita per avere detto alcune verità, che è malamente portata via dai suoi aguzzini.
Plumas (Piume, 2013) è un originale film noir in convivono ironia, sadismo, divertimento, violente scene di uccisioni. Quike Francés, a capo di una compagnia teatrale off il cui attore principale è anche il protagonista del corto, ha giocato con grande bravura su omicidi di serial killer, uno strano cacciatore che in casa alleva due galline ed esce con un uovo e la carabina, utilizzando il fragile elemento per spiaccicarlo contro il parabrezza di auto, facendola fermare, uccidendo il guidatore e scattando con la Polaroid una foto assieme alla vittima che pone in quadro a mo’ di trofeo. Ne uccide altri in questa maniera, scatta le foto ma, nel finale, si vede che ci sono almeno altri cento quadretti in attesa di una trofeo. Deliziosi i titoli di coda in cui il cacciatore ha come trofei di volta in volta regista, sceneggiatore, compositore delle musiche, costumista ripresi nella stessa posizione delle vittime del killer.
Y otro año, perdices (E hai perso un altro anno, 2013) di Marta Díaz de Lope racconta della ipocrita festa di compleanno organizzata da una delle figlie per il compleanno della madre. Partecipano tutte le sorelle che si odiano e si sorridono in maniera falsa, i loro mariti più o meno succubi, una delle nipoti confessa di essere lesbica mentre la festeggiata, in maniera impassibile, fa finta di non accorgersi di nulla e si gode la festa mentre la padrona di casa, dopo la rivelazione della figlia, sa di avere perduto per sempre la possibilità di essere leader in famiglia. Gag da comiche, melanconia che racconta in maniera perfetta la falsità di famiglia fatta da parenti serpenti.You and Me (Tue d io, 2013) di Rafa Russo è forse il più riuscito, con un tono giocosamente, ma anche tristemente autobiografico. L’esperto regista ha spiegato che nella situazione raccontata molti suoi colleghi si sono identificati. Un regista non di successo ma che si sente molto creativo, è ostacolato dalla moglie che vorrebbe facesse un lavoro serio. Casa ipotecata, la donna che, al posto del corto, preferirebbe comperare una lavastoviglie, il ricatto dei figli che non hanno niente da vestire. Quando lui decide di andare via di casa, tutto cambia, lei gli permetterebbe di girare il corto che lui, in realtà, aveva già realizzato di nascosto. Realmente esplosivo come battute, poggia sui dialoghi perfettamente interpretati da Anna Casas e Mark Shardan.
F.F.
Vincitore della sezione Punto de Encuentro della cinquattottesima edizione del SEMINCI di Valladolid e’ stato Wajma presentato in spagnolo col titolo Wayma – una historia afghana de amor (Wayma, una storia di amore afghana, 2013) prodotto da Afghanistan e Francia. La sceneggiatura era stata premiata al Sundance Festival. Diretto, scritto, fotografato, musicato dal quarantasettenne Barmak Akram, e’ un film con una vicenda che si identifica con la cultura afghana ma che e’ realizzato con una struttura narrativa piu’ occidentale dovuta al fatto che l’autore vive da anni a Parigi dove ha studiato Belle Arti. Il suo primo lungometraggio Kabuli kid (Il ragazzo di Kabul, 2008) ha vinto numerosi premi ed è stato presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Akram e’ anche musicista, performer e compositore e si è dedicato ad esplorare la cultura afghana e la poesia persiana di cui e’ divenuto uno dei piu’ apprezzati studiosi in Europa. Questo per dire che tutta la poesia che riesce a trasfondere nel film nasce proprio da queste sue esperienze, realizzando il film con una lavoraziobe di oltre due anni perche’ ha voluto fosse opera completamente sua, un parto del suo modo di interpretare la comunicazione e l’arte. Sta nevicando a Kabul e un cameriere allegro e simpatico seduce senza troppa resistenza una bella studentessa di nome Wajma. I due iniziano una relazione clandestina, passionale e con grande trasporto, ma non possono dimemticare le regole religiose e sociali che hanno infranto, vivendo con un certo senso di colpa il proprio amore. Quando la ragazza rimane incinta è messa in dubbio la sua convinzione che sposerà Mustafa, mentre ormai in molti sanno della loro relazione. Suo padre deve scegliere tra il diritto a difendere l'onore della famiglia davanti agli occhi di tutti e l’amore sincero che ha per sua figlia. Non siamo di fronte ad un piagnucoloso melodramma ma ad un’opera che racconta una love story vissuta in una situazione, un mondo, una realta’ molto diversa dalla nostra. Wajma Bahar e Mustafa Habibi sono molto bravi, gli altri disegnano con credibilità i propri personaggi.
Berlin - 7º (idem, 2013) e’ un onesto film sull’emarginazione dei rifugiati politici, degli irregolari, di persone che si trovano spesso ad affrontare paesi e lingue che non conoscono col timore di essere rispediti alla loro patria dove rischierebbero drammatiche punizioni. Diretto dal quarantenne iraniano Ramtin Lavafipour, nello sviluppo del film evidenzia il suo amore e la grande capacita’ espressiva che ha acquisito attraverso i suoi studi di fotografia. Non ancora ventenne aveva aderito all’Associazione dei giovani registi iraniani e ha completato i suoi studi. Nel 2008 ha fatto il suo debutto nel lungometraggio con Aram bash va ta hatf beshmar (Tranquillo, e conta fino a sette) presentato sempre a Punto de encuentro nella cinquantaquatresima edizione vincendo con merito la sezione delle opere prime e seconde. La guerra in Iraq conta molte vittime, tanti altri sparsi per il mondo sono rifugiati che patiscono dolori e vivono nell’incertezza del loro futuro. Atef, un prefessore di inglese, vive a Baghdad ormai da anni ed e’ apparentemente felice. Dopo una sparatoria che accidentalmente colpisce la moglie, prende con se la figlia e il figlio con problemi psichici per tentare di raggiungere Berlino ed iniziare una nuova vita. Il loro faticoso cammino è appena iniziato, Atef capisce che essere un rifugiato in un paese straniero non rappresentava la vita da sogno che lui aveva immaginato. Anche la sua famiglia non è quella di un tempo, trasformata dal contatto con una realtà tanto diversa. Interpretato con equilibrio e bravura da Thom Bishops e Mostafa Zamani, attraverso l’esperienza di questa famiglia racconta il dramma di chi deve affrontare cattiveria da parte di mediatori che li truffano, dei problemi con le autorita’ per dimostrare di essere veri rifugiati, della paura di essere giudicati negativamente, della lotta ogni giorno per sopravvivere.
F.F.
La Seminci ha anche una finestra aperta sulla produzione spagnola dell’ultimo anno. Pochi film per informare i giornalisti stranieri. E non sono mancate le sorprese. Particolarmente dinamica, ironica e critica risulta la commedia Casting di Jorge Naranjo. Novanta minuti di allegria seguendo le traiettorie di giovani attori in cerca di lavoro che s’intrecciano con storie personali, di relazioni e di solitudine. Javi, scartato a un casting, trascorre una giornata convulsa. Frustrato e deluso, scopre anche di essere tradito, ma alla fine del giorno, a un altro casting, l’esito è diverso. In attesa del risultato, conosce una ragazza simpatica e imprevedibile. Accanto alla vicenda di Javi se ne intrecciano altre in una divertente girandola di personaggi e di situazioni.
Toccante si potrebbe definire il film La plaga (La peste) di Neus Ballús. Si apre su una strada della Catalogna. Sembra svilupparsi come un documentario, invece presenta persone legate al proprio destino: per semplicitá diremmo al proprio lavoro, alla propria etá, alla propria condizione. Iuri si allena in una palestra, e aiuta un agricoltore nel lavoro dei campi. Questi è preoccupato dalla siccitá e dalle mosche bianche che gli stanno rovinando il raccolto. Sulla strada spesso dá un passaggio a un’infermiera filippina che lavora in una casa per anziani. Qui una vecchia signora che curava il suo orto e ora costretta a convivere con anziani che le risultano noiosi. Lungo la strada di campagna c’è anche un prostituta che sta perdendo clienti. Un mondo in crisi durante un’estate torrida quello del film che il regista catalano descrive con rigore e con affetto, e che è stato salutato da scroscianti applausi.
Almeno bizzarro, seppure non riuscito, l’ultimo film di Javier Rebollo del quale va ricordato l’originale Lo que se de Lola. Intitolato El muerto y ser feliz (Il morto e essere felice), è interpretato da un attore famoso, José Sacristán. Coprodotto con Francia e Argentina, narra di un killer di Buenos Airese, malato terminale, che decide di lasciare l’ospedale e di mettersi alla guida della sua auto per andare a morire altrove. Non in un luogo determinato, ma in movimento. Fornito di morfina per alleviare il dolore va verso sud. Sulla strada raccoglie una giovane donna. Vivrá con lei le ultime avventure. La scommessa del regista, sicuramente non riuscita, è stata quella di accompagnare, in maniera didascalica, le azioni del film con una voce fuori campo, come avviene in Tv con le partite di calcio.
Film di chiusura del Festival è stato Walesa. Czlowiek z nadziei (Walesa. La speranza di un popolo), centoventisette minuti, del maestro del cinema polacco Andrzej Wajda. Già presentato a Venezia e a Toronto, il film è una sorta di biopic del leader sindacalista dal 1970 all’assegnazione del premio Nobel per la pace e alla caduta del muro. Costruito in flash back durante una lunga intervista con Oriana Fallaci (Maria Rosario Omaggio), il film mette in evidenza le repressioni e i ricatti del regime, la determinazione dell’operaio e i disastrati interni di famiglia di un capo che in quegli anni ebbe sei figli. Protagonista l’attore Robert Wieckiewicz.
R.F.
Sezione Ufficiale
Lungometraggi
Spiga d’Oro
Tokyo Kazoku (Una famiglia di Tokyo, 2013, Giappone) di Yôji Yamada
Spiga d’Argento
Run & Jump (Corri e salta, 2013 Irlanda – Germania) di Steph
Premio per la migliore regia
Joanna Kos-Krauze e Krzysztof Krauze per Papusza (idem, Polonia, 2013)
Premio Miguel Delibes per la migliore sceneggiatura:
Agnès Jaoui e Jean-Pierre Bacri per Au Bout Du Conte (Alla fine del racconto, 2013, Francia)
Premio Pilar Miró al migliore regista debuttante
Diederik Ebbinge per Matterhorn (idem, 2013, Olanda)
Premio al migliore attore
Zbigniew Walerys per Papusza (idem, Polonia, 2013) di Joanna Kos-Krauze e Krzysztof Krauze
Premio alla migliore attrice
Nora Navas por Tots volem el millor per a ella (Todos queremos lo mejor para
Ella – Tutti vogliamo il meglio per lei, 2013, Spagna) di Mar Coll,
Premio per la migliore fotografia
Christopher Blauvelt per Night Moves (Movimenti notturni, 2013, USA) di Kelly Reichardt,
Cortometraggi
Migliore cortometraggio europeo
The Missing Scarf (La sciarpa sparita, 2013, Irlanda) di Eoin Duffy
Spiga d’Oro
Boles (Tronchi, 2013, Slovenia – Germania) di Špela Čadež
Spiga d’argento:
Subconscious Password (Il gioco della memoria, 2013, Canada) di Chris Landreth
Premio FIPRESCI
Lungometraggi
La reconstruction (La ricostruzione, Argentina, 2013) di Juan Taratuto
Premi Sezione Punto de Encuentro
Lungometraggi
Wajma - An Afghan Love Story (Wajma – Una storia d’amore Afghana - Francia, Afghanistan, 2013) di Barmak Akram
Cortometraggi
Äta lunch (Ora di mangiare. 2013, Svezia) di Sanna Lenken
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