31 Ottobre 2012
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34° Festival Cinéma Méditerranée di Montpellier |
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Sito ufficiale del festival: http://www.cinemed.tm.fr/
34° Festival du Cinéma Méditerranéen de Montpellier
Il festival Cinemed di Montpellier è una di quelle piccole manifestazioni che contribuiscono in modo sostanziale a dare corpo ad una cultura cinematografica profonda. E’ una rassegna dedicata a un’area specifica, quella del cinema prodotto nel vasto bacino dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo, che è giunta alla 34ma edizione.
Comprende molte sezioni, quella competitiva si è aperta con Les Chevaux de Dieu (I cavalli di Dio) del regista d’origine marocchina, ma nato a Parigi, Nabil Ayouch. Il film disegna il percorso di tre ragazzi che, dalla miseria della bidonville di Casablanca, li porta - attraverso vicende personali diverse, ma confluenti - a offrirsi come kamikaze per uno degli attentati, in cui furono coinvolti ben quattordici uomini bomba il 16 maggio 2003 causando quarantacinque morti, tra cui un italiano. Il regista descrive lucidamente il percorso compito da questo giovani, dai giochi giovanili all’approdo al fanatismo religioso con note molto efficaci ad esempio per ciò che riguarda il rapporto con le donne, madri comprese. Ciò che manca al film, ma non ne inficia minimamente il valore politico, è un pizzico d’originalità in una narrazione che si plasma sui percorsi classici delle opere a forte denuncia sociale, ma non eccelso valore espressivo. Un film molto importante e significativo, sia per l’origine che per il quadro che disegna, ma abbastanza tradizionale dal punto di vista dello stile.
E’ un discorso che vale anche per Yossi dell’israeliano Eytan Fox. Qui un chirurgo omosessuale vive il lutto per la morte, anni prima, di un suo amante. Entrambi militari dell’esercito di Davide durante l’invasione del Libano, erano sentimentalmente legati quando uno cadde in battaglia. Il medico sopravvissuto non riesce a trovare pace rifugiandosi in masturbazioni su filmati catturati su internet o incontri occasionali. Tutto questo cambia con l’incontro casuale, durante una vacanza a cui è stato costretto dalla direzione dell’ospedale, con un gruppo si soldati in licenza, uno dei quali dichiaratamente gay. E’ l’inizio si una nuova relazione, dall’avvio non facile e piuttosto tormentata, ma che schiude nuove possibilità di vita. E’ un film a tesi in difesa dell’omosessualità e una storia d’amore abbastanza tenera, ma anche prevedibile. L’esposizione ha qualche cosa in comune con quella delle riviste patinate, con splendidi paesaggi solari, corpi teneramente accarezzati dalla macchina da presa, snodi abbastanza prevedibili. Un film ben confezionato, ma decisamente tradizionale.
U.R.
Blancanieves (Biancaneve), dello spagnolo Pablo Berger, è una versione originale della famosa fiaba dei Fratelli Jacob Ludwig Karl (1785 – 1863) e Wilhelm Karl (1786 – 1859) Grimm. In questo caso il quadro in cui si svolge la lotta fra la cattiva matrigna e l’orfanella buona e candida, è la Spagna fra il 1915 e la metà degli anni venti. In questa storia Biancaneve è la figlia di un famoso matador costretto in carrozzella dopo un cruento scontro con un toro molto aggressivo. Il malato sposa una delle infermiere che lo hanno curato e mal gliene incoglie. La giovane moglie, dotata di prestante amante, lo relega al primo piano del suo sontuoso palazzo, non lo assiste, in compenso riempie l’armadio di capi lussuosi. Per quanto riguarda l’orfanella, sopravvissuta ad un parto difficile in cui è morta la madre, l’umilia facendole fare i lavori più faticosi e degradanti. Come nella fiaba, una soluzione arriverà dall’incontro fra la giovane e un gruppo di nani toreri, questo anche se il finale sarà tutt’altro che gioioso, visto che la megera riuscirà ad avvelenare la fanciulla che sarà trasformata in attrazione da fiera. Il film non ha dialoghi ed è girato in bianco e nero, insomma un’opera molto simile al pluripremiato The Artist (L’artista, 2011) diretto dal francese Michel Hazanavicius (1967), anche se gli autori assicurano che il loro film è stato pensato e impostato prima di quello vincitore del premio Oscar. Nel caso specifico c’è, rispetto all’altro testo, una maggiore malinconia, uno spirito drammatico più forte e una diffusa aurea gotica. E’ un’opera forte e molto ben costruita, decisamente originale da un punto di vista stilistico.
Djeca (Ragazzi di Sarajevo), diretto dalla bosniaca Aida Begic (1976), racconta le conseguenze psicologiche della lunga guerra e del drammatico assedio cui le truppe serbe sottoposero la città attraverso il complesso rapporto fra fratello e sorella. Rahima ha ventitré anni e ha fatto la scelta di velarsi, quasi a gridare al mondo il suo essere credente mussulmana. Suo fratello Nedim si muove in una direzione del tutto diversa, quella del ribellismo e dell’insoddisfazione. Uno stato d’animo che lo porta a continue risse, a raccogliere armi e a quasi non parla con la sorella. I rapporti fra i due giovani si fanno progressivamente sempre più freddi, sino a una clamorosa riconciliazione, la notte di capodanno, nel bel mezzo di una generale esplosione, forse festosa, di scoppi. E’ un film girato in maniera nervosa, con macchina a mano sempre in movimento, scatto d’immagini non sempre misurate. In definitiva un film cartella clinica di una condizione complessa e nevrotica.
U.R.
Il cinema turco sta attraversando un momento di particolare felicità creativa, come conferma Tepenin ardi (Dietro la collina), opera prima del giovane, è nato nel 1974, Emin Alper. Un gruppo di persone s’incontrano in campagna per un banchetto a base di carne di capra. C’è il patriarca, proprietario della casa e del terreno circostante, il figlio che tenta ti convincerlo a vendere tutto e andare a vivere in città, i nipoti, un mezzadro, che cura terra e gregge, e sua moglie, debitamente relegata in cucina. Sembrerebbe un’allegra rimpatriata senonché aleggia sul gruppo l’inquietudine e la paura nei confronti di un gruppo di nomadi che vivono sull’altro versante della collina e che, a detta dei convitati, si sono macchiati di furti e aggressioni. Non vedremo mai, se non come siluette lontane, questi supporti invasori, ma la loro ipotetica presenza e alcuni incidenti – spiegabili in mille modi – indurranno il gruppo ad armarsi e a intraprendere una marchia verso lo scontro con questi misteriosi diversi. Bastano queste poche righe per rivelare come il film sviluppi una forte metafora dell’immigrazione e, più in generale del rapporto conflittuale far coloro che si ritengono normali e quanti vivono in mondi e adottato partiche di altro tipo. In altre parole siamo in presenza di un apologo sulla conflittualità fra immigrati e residenti e fra quanti praticano religioni o stili di vita differenti. Il film è segnato da una straordinaria maturità stilistica e affronta, in maniera apparentemente indiretta, temi e snodi di grande attualità. Lo fa con una narrazione lenta, costruita più sull’accumulo di dettagli che non su una sequenza di eventi. Fra le note di rilievo la presenza, saltuaria, ma incombente di un gruppo di militari, emblema sia del ruolo dominante svolto dall’esercito sulla vita politica turca, sia del perenne stato di conflitto armato fra soldati e militanti curdi. Davvero un bel film.
Parada (La parata) del serbo Srdjan Dragojevic è una commedia drammatica che ruota attorno alla condizione degli omosessuali nei paesi nati dall’esplosione dell’ex Jugoslavia. A Belgrado si sta per organizzare il primo gay pride della storia del paese. L’annuncio scatena le ire d’ipernazionalisti e fascisti di vario tipo che iniziano a picchiare gli organizzatori, distruggere i loro uffici, minacciare chiunque li sostenga. In questo clima un gangster di mezza età, ex combattente delle più feroci milizie serbe, vuole sposare una ragazza che pretende un matrimonio organizzato da un famoso regista teatrale, notoriamente omosessuale, che convive con un veterinario grassoccio. Per soddisfare la fidanzata, l’ex miliziano accetta di organizzare il servizio di sicurezza per la manifestazione rosa. Per farlo mette assieme un gruppo di ex nemici – ustascia, estremisti islamici, cetnici - che si uniscono in un manipolo stile I magnifici sette improbabile quanto fantasioso. Lo scontro con i giovani di destra sarà la causa delle morte del teatrante, ma l’anno successivo il corteo sarà ancor più numeroso, anche se le violenze diventeranno particolarmente feroci. L’idea di affrontare il nodo drammatico dell’omofobia in un paese preda a un sentire anti gay diffuso e violento, con toni da commedia non era male e l’opera raggiunge qualche risultato di buon rilievo. Ci sono gag e snodi narrativi sicuramente spassosi, anche se su tutto incombe una visione quasi caricaturale del terzo sesso. E’ vero che anche militanti ultranazionalisti e vecchi combattenti sono visti con uno sguardo tendenzialmente farsesco, ma si ha l’impressione che il regista non sia riuscito a sottrarsi del tutto alla peggiore rappresentazione stereotipa degli omosessuali. Nel complesso un film divertente, sferzante, ma non privo di manchevolezze.
Fed Me With Your Words (Nutrimi con le tue parole) dello sloveno Martin Turk ruota attorno ai temi della solitudine e la ricerca di Cristo nell’animo di un giovane che pensa di aver ritrovato Gesù in un barbone italiano incontrato casualmente. Ne è certo in quanto il senzatetto scrive come il Messia e pronuncia frasi che sembrano tratte di peso dai Vangeli. Da notare che il giovane è un esperto di grafologia. Questa vicenda mistica è vissuta attraverso gli occhi di suo padre e suo fratello, giunti in Italia dalla Slovenia dopo che lui aveva cessato di dare segno di se. E’ un film misticheggiante, formalmente molto curato, sorretto da una buona fotografia e da uno stile decisamente tradizionale. E’ una di quelle opere che affrontano temi tanto specifici da raccoglie l’interesse, soprattutto, di chi ha sensibilità e familiarità con essi. Quest’opera, osservata con distacco, convince poco per lo spiritualismo un po’ semplicistico che l’attraversa. In conclusione è un prodotto ben confezionato, ma incapace di suscitare un generale coinvolgimento. Forse il primo titolo, fra quelli visti sinora, che suscita più delusione che adesione.
U.R.
Stefano Mordini ha tratto Acciaio dal libro – rivelazione di Silvia Avallone, un primo romanzo che ha ottenuto numerosi premi letterari fra cui Campiello e Flaiano. Libro e film hanno al centro due tredicenni che vivono a Piombino, nelle case operaie prospicenti il mare. Le loro giovani esistenze sono travagliate dalle prime pulsioni erotiche, con sfumature lesbiche, sensazioni che s’intrecciano alla vita di una città fortemente dipendente dal lavoro nell’acciaieria ex – Ilva, ora Lucchini. Si allontaneranno, incontreranno altri partner e si riconcilieranno davanti al mare dell’isola d’Elba, accomunate nel dolore per la morte del fratello di una delle due. E’ una storia che unisce un percorso di maturazione giovanile, con ottime notazioni sull’animo femminile, al quadro di una città che vede progressivamente contrarsi la sua principale fonte di ricchezza. E’ anche un itinerario sociale dalla centralità operaia opposta alle tentazioni affaristiche, quando non truffaldine. C’è un po’ troppa carne al fuoco e il risultato, pregevole per lo stile cinematografico sorretto da un fotografia di grande efficacia, marca non pochi scompensi. Se la parte rivolta alla maturazione adolescenziale ha momenti pregevoli, la storia dell’amore fra l’operaio e la coetanea che ritorna in fabbrica con un ruolo dirigenziale, appare quasi come una parentesi irrisolta nel quadro di un discorso che si vorrebbe corale e rivolto in più direzioni. In definitiva un prodotto di buona qualità professionale, ma non esente da lacune.
El sheita elli fat (L’inverno del nostro scontento) dell’egiziano Ibrahim El Batout ricostruisce, attraverso i triboli e le speranze di un intellettuale le giornate del gennaio 2011 che portarono, attraverso i moti di piazza Tahrir, alla caduta del regime di Hosni Moubarak (1928). Il regista non ci risparmia scene violente di tortura per denunciare le malefatte degli uomini dei Servizi di Sicurezza, ma ha la lucidità di concludere con l’amara constatazione che, siano ad oggi, nessuno dei repressori è stato chiamato a rispondere di ciò che ha fatto. E’ il quadro partecipato e toccante della fine di una dittatura pluridecennale e marchia non solo i responsabili diretti, ma anche quelle potenze occidentali che hanno voltato la testa dall’altra parte. Un film militante, dunque, emozionante e partigiano quanto ci si può e deve aspettate, non certo un’analisi approfondita di ciò che è successo in quei giorni. Una volta, parlando de L’uomo di marmo (Człowiek z żelaza, 1981), Andrzej Wajda disse: so che non è un capolavoro, ma è il film che, in questo momento, un regista polacco doveva fare. E’ la stessa cosa la si può dire per questo testo: un’opera in cui il valore politico mette in ombra qualsiasi altro giudizio.
U.R.
Croniques d’une cour de récreè (Cronache di un cortile per la ricreazione) di Brahim Tritah è piacevole film, leggero e prevedibile, sulla fine dell’adolescenza di un ragazzino d’origine maghrebina, processo personale che coincide con la chiusura della fabbrica in cui suo padre lavora come operaio e custode. Un film di memoria ambientato nel 1980 in cui s’intrecciano sogni infantili, primi accenni d’interesse verso l’altro sesso, echi di eventi politici (colpo di stato in Cile, lotte sindacali, difficoltà economiche diffuse,..). Tutto questo è visto con occhio venato di nostalgia personale e senza troppe preoccupazioni per l’approfondimento né politico né psicologico. Se lo avesse diretto un regista italiano potremmo parlare di film ombelicale, con riferimento a molti titoli in cui gli autori sono convinti che la condivisione dei loro ricordi di giovinezza sia interessante per il pubblico.
Gaigimet (Sorridi) della georgiana Rusudan Chkonia ruota attorno a un demenziale concorso per la Madre dell’Anno in cui sono coinvolte una decina di donne di varia età e condizione sociale. La maggior parte di loro è attratta dal premio finale: 25 mila dollari e un appartamento di quattro vani. Quando s’imbarcano nell’avventura nessuna di loro sa quali umiliazioni le attendono: balletti di stile televisivo, sfilate in bikini, foto rubate mente si cambiano, minacce e ricatti sessuali. Il tutto gestito da un impresario cinico e violento i cui disegni, tuttavia, naufragano in un finale concitato, punteggiato di ribellioni, disguidi organizzativi e concluso con il suicidio di una delle concorrenti. E’ un film socialmente molto importante e s’inscrive in quel filone, piuttosto numeroso, di opere che denunciano i guai arrivati sia con la fine del socialismo reale sia con la feroce e repentina occidentalizzazione di paesi un tempo posti sotto l’influenza dell’Unione Sovietica. In altre parole un film politicamente importante, ma di non grande spessore stilistico.
Molto più interessante Le sac de farine (Il sacco di farina) di Kadija Leclere, attrice belga d’origine marocchina diplomata alla scuole d’arte di Bruxelles e qui alla regia del primo lungometraggio. Il film racconta una storia vicina ai ricordi dell’autrice ed è ambientato alla fine degli anni sessanta quanto i movimenti studenteschi iniziano a far sentire la loro voce anche in Marocco. Fra i giovani che sono suggestionati da questa nuova tensione c’è anche Sara, nata in Belgio, educata in un istituto religioso cattolico e riportata in Marocco dal padre con l’inganno per abbandonarla alle cure di una zia premurosa e comprensiva, ma che non certo le possibilità per soddisfare i desideri della ragazza. Nel pieno delle tensioni politiche e sociali Sara ha la possibilità di ritornate in Belgio, dovrà sposare solo formalmente un marocchino per fargli avere il permesso di soggiorno, dopo divorzieranno e ciascuno andrà per la sua strada. Lacerata fra la possibilità di ritornare dove è cresciuta e la solidarietà con i giovani rivoltosi, decide di partire, anche se questo costituirà un peso permanente sulla sua coscienza. Il film è realizzato molto bene, con grande professionalità e con notazioni psicologiche non banali, anche se il centro del discorso ruota attorno al conflitto fra arcaicità marocchina e modernità occidentale. Un buon film in cui le intenzioni politiche si sposano armoniosamente a quelle individuali.
U.R.
Il cartelllone del Festival ha previsto, accanto alla sezione competitiva, la sezione Panorama dedicata alle migliori produzioni recenti dei diversi paesi, dal Portogallo al Mar Nero, che affacciano sul Mediterraneo. Degli undici lungometraggi proposti in questa edizione meritano una attenzione particolare i lavori del brasiliano Sergio Tréfaut con il Viaggio In Portogallo, l’italiano Edoardo Gabbriellini, con Padroni di Casa e il marocchino Abdelhai Laraki con Love in the Medina. Il primo lo si può definire un film politicamente impegnato che indaga, ricostruendo una storia vera, le procedure che le gendarmerie dei paesi occidentali instaurano presso le stazioni aeroportuali al fine di dissuadere i tentativi di immigrazione clandestina. La protagonista Maria è una giovane donna ucraina che atterra il l’ultimo giorno del 1997 all’aeroporto di Faro, nella regione dell’Algarve, con un volo di linea proveniente da Kiev e viene rimpatriata il giorno seguente. Gregorio, il marito, è un immigrato senegalese che, sebbene laureato in medicina, trova come unica opportunità di riscatto dalle miserie del suo paese, quella di sbarcare il lunario lavorando come manovale in un cantiere edile dell’expo di Lisbona. Maria e Gregorio sono dunque gli interpreti di un tentativo di ricongiungimento familiare negato dalle norme, quelle extra Schengen, e dal pregiudizio, degli ispettori aeroportuali. Il regista imprime alla pellicola uno stile asciutto, basato su primi piani del viso degli interpreti, su dialoghi serrati, come quelli di chi è sottoposto ad interrogatorio. Il tutto scandito dal passare delle tempo, meno di ventiquattro ore, ed esaltato dalla scelta del bianco e nero. Con questo buon lavoro il cineasta ci vuole ricordare, se per assuefazione lo avessimo dimenticato, come la nostra società cosi libera in campo economico e finanziario lo è poco nei confronti della dignità dei migranti.
Padroni di casa è l’opera seconda del giovane toscano Edoardo Gabbriellini e racconta, senza troppe furbizie e ruffianerie, uno spaccato di vita della provincia, quello di un piccolo paese dell’Appennino tosco-emiliano, dove l’apparente tranquillità della comunità rurale, può essere messa in crisi da un fatto banale e la violenza esplodere da un momento all'altro in modo irrimediabile. La storia è quella di due fratelli muratori, gli ottimi Elio Germano e Valerio Mastrandrea, che si recano per piastrellare il terrazzo della villa di un celebre cantante (Gianni Morandi nella veste di un cinico, ritiratosi da anni dalle scene per assistere la moglie - Valeria Bruni Tedeschi - ammalata e quasi immobilizzata). Il regista riesce nel compito non banale di restituire, attraverso molte contraddizioni, altrettante miserie e poche virtù la, società d’oggi. Il resto, ovvero la storia e i luoghi. costituisce un buon contorno.
Il pluripremiato Love in the Medina (Amore nella Medina) del cineasta marocchino Abdelhai Laraki ruota attorno alla storia di una giovane coppia di innamorati, Zineb, ragazza dalle umili origini, e Thami che vuole diventare un apprezzato macellaio e che per farlo sfida la volontà caparbia e prepotente del padre che per lui ha prefigurato, invece, tutt’altro tipo d’avvenire. In apparenza una storia prevedibile: l’amore negato, la fuga e poi l’amore che trionfa, ma nel profondo, affiora da parte del cineasta, l’analisi lucida e la denuncia di come in terra marocchina, i rapporti interpersonali, l’amore e la sessualità siano ancora molto complicati, sospesi tra modernità, ricerca di libertà ed emancipazione e arcaiche convenzioni sociali. Non è un caso che Abdelhai Laraki accanto alle due figure principali muova una gran numero di personaggi minori espressione di questo conflitto: da un lato le figure dell’entourage famigliare del protagonista, dove regna la sudditanza al padre - padrone, o come la giovane promessa in sposa secondo le regole del matrimonio combinato; dall’altro la bella donna imponente che, dietro l’apparente normalità di un bagno turco, si prostituisce: sarà con lei che il giovane Thami scoprirà l’amore. Un bel film questo di Laraki dove passione e sensualità non scadono mai nella volgarità,
A.S.
Antigone d’oro (15.000 € offerti da l’Agglomération de Montpellier, aiuto alla distribuzione offerto da CINÉ+ e da Titra Film - 2 500 € per il sottotitolaggio)
Gaigimet (Sorridi), di Rusudan Chkonia (Francia/Georgia/Lussemburgo)
Menzione speciale a
El sheita elli fat (L’inverno del nostro scontento), di Ibrahim El Batout (Egitto)
Premio della critica patrocinato dal Crédit coopératif con una dotazione di 2.000 € al regista
El sheita elli fat (L’inverno del nostro scontento) di Ibrahim El Batout (Egitto)
Premi del pubblico patrocinato dal quotidiano Midi Libre con una dotazione di 4.000 €
Parada (La parata), di Srdjan Dragojevic (Serbia/Croazia)
Premio JAM per la migliore musica con una dotazione di 1.200 €
Chroniques d’une cour de récré (Cronache di un cortile per la ricreazione), di Brahim Fritah (Francia/Marocco) per la musica composta da Jean-Christophe Ono, Xavier Thibault e per il montaggio sonoro e il missaggio di Cédric Lionnet
Premio al sostegno all’esportazione offerto da Insomnia World Sales con una dotazione di 1.200 € sotto forma di prestazioni tecniche
Love in the Medina (L’amore nella Medina), di Abdelhai Laraki (Marocco/Italia)
Premio del pubblico giovane con una dotazione di 2.000 € al regista
Les Chevaux de Dieu (I cavalli di Dio), di Nabil Ayouch (Marocco/Francia/Belgio)
Cortometraggi
Gran premio del cortometraggio dell’Agglomération de Montpellier con una dotazione di 4.000 € per il regista
Silencieux (Silenzioso), di Rezan Yesilbas (Turchia)
Menzione speciale
Danseurs (Danzatori), di Liz Lobato (Spagna)
Premio del pubblico Midi Libre - Titra Film dotazione di 1.000 € al regista offerti dal quotidiano Midi Libre et di 500 € in servizi tecnici per il sottotitolaggio.
Babylone Fast Food, di Alessandro Valori (Italia)
Premio del pubblico giovane della città di Montpellier con una dotazione di 2.000 € al regista
Quand ils dorment (Quando dormono), di Maryam Touzani (Marocco)
Premio dell’associazione Beaumarchais con una dotazione di 1.500 € al regista per il miglio film francofono e un aiuto complementare per la scrittura della sceneggiatura di un lungometraggio.
La Dernière caravane (L’ultima carovana), di Foued Mansour (Francia)
Premio Cinecourts CINÉ+ Con acquisto per la diffusione su Cinecourts
Bardo, di Marija Apcevska (Macedonia)
Premio Canal+ con acquisto per la diffusione su Canal+
La Vache finlandaise (La vacca finlandese), di Gheorghe Preda (Romania)
Documentari
Premio Ulisse con una dotazione di 3.000 € al regista offerti dalla Médiathèque centrale d’agglomération Federico Fellini di Montpellier
Soldier/Citizen (Soldato/Cittadino), di Silvina Landsmann (Israele)
Menzione speciale
Albums de famille (Albun di famiglia), di Maïs Darwazeh, Nassim Amaouche, Erige Sehiri, Sameh Zoabi (Palestina/Francia/Emirati Arabi Uniti)
Borse d’auto allo sviluppo dei progetti
Una borsa di 7.000 euro offerta dal Centre national de la cinématographie et de l’image animée
Les Mémoires du vent (Le memorie del vento) di Özcan Alper, regista e Guillaume de Seille, produttore (Turchia/Georgia/Armenia/Francia)
Una borsa di 7.000 euro offerta dal Ministero degli Affari Esteri e europei
Thala mon amour (Thala, amore mio) de Mehdi Hmili, regista e Ali Ben Hamra, produttore (Tunisia)
Una borsa di 7.000 euro offerta dall’Organisation internationale de la Francophonie
Tazzeka di Jean-Philippe Gaud, regista e Sébastien de Fonseca, produttore (Marocco/Francia)
Una borsa di 4.000 euro offerta dalla Région Languedoc-Roussillon
Avant de partir (Prima di partire) di Mohammed Latrèche, regista (Algeria)
Una borsa di 3.000 euro offerta dall’Association Beaumarchais e una dotazione di 5.500 euro sotto forma di servizi offerti da Éclair Group
Josep di Aurel, regista, Jean-Charles Mbotti, co-regista et Xavier Julliot, produttore (Francia)
Una residenza di scrittura offerta dal Centre des écritures cinématographiques Le Moulin d’Andé
La Marche (La marcia) de Ramin Matin, réalisateur et Bertrand Glosset, producteur (Turchia)
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