22 Agosto 2012
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Festival Des Films Du Monde |
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Ci si può comportare con un coccodrillo come ci si comporta con un animale domestico? La domanda sorge spontanea durante la visione del quinto film del cinese Lisheng Lin, Million dollar crocodile (Un coccodrillo da un milione di dollari), che ha inaugurato il 36nmo Festival des Films du Monde di Montreal. A detta del coriaceo ottantunenne presidente Serge Losique, la scelta di una commedia prodotta da un paese di grande effervescenza culturale come la Cina, della quale era presente in sala una folta delegazione, ha interrotto per una volta il rituale dell’inaugurazione riservata a un film del Québec. E il film ha divertito molto la platea narrando di un esperto allevatore di coccodrilli che, in mancanza di fondi per alimentarli, è costretto a venderli a un borioso proprietario di ristoranti. Senonche’ il piu’ anziano e il piu’ forte degli alligatori sfonda una rete e fuggendo diventa un pericolo per la comunita’. Il regista descrive l’amicizia di un bambino per il coccodrillo al quale era solito gettare cibo. Figlio di un poliziotto bistrattato, il piccolo permette di ritrovare il fuggitivo, di catturarlo e di permettere al padre un comportamento eroico. Tra gli ingredienti comici del film la vicenda di una giovane i cui risparmi di otto anni di lavoro in Italia sono inghiottiti dal coccodrillo spingendola a un affannoso recupero dei suoi averi.
Dopo che l’attrice Greta Scacchi, presidenta della giuria internazionale, ha dichiarato aperto il Festival, il primo film in concorso era firmato da un polacco. Marcin Krzysztalowicz, quarantatré anni, tre film e una serie Tv, ha diretto Oblawa, tradotto Traque (Monitoraggio) in francese, e Manhunt (Caccia all'uomo) in inglese, e che descrive una serrata caccia all’uomo durante l’autunno del 1943 in una foresta, luogo di operazione degli occupanti nazisti e di resistenti polacchi. Il tradimento, piu’ che la guerra, è il tema fondamentale del film. Con una costruzione a puzzle, con scene assortite come in un mosaico, il regista narra di resistenti e di delatori in un film claustrofobico. Si conoscono tutti nella piccola comunita’, ma c’e’ chi si batte e chi spera di trarre vantaggio dalla collaborazione con gli occupanti. Ex compagni di scuola, o protagonisti d’innamoramenti non confessati, sono coinvolti nella spirale della guerra che li portera’ tutti a una tragica fine. Non c’e’ scampo neanche per il protagonista, (Marcin Dorocinski), caporale che esegue freddamente gli ordini dell’ufficiale, compie azioni di guerriglia e rende onore ai caduti. In altre parole: nessuno si salva, ma l’onore è salvo. Sono passate tre generazioni dalla fine della guerra, ed è giusto che se ne continui a parlare. Peccato che si parli soltanto di vecchi rancori, odi e tradimenti, ne’piu’ ne’meno come in un film western, senza apportare niente alla conoscenza storica ne’al racconto filmico.
Al suo quinto film, la regista madrilena Patricia Ferreira ha girato un film in lingua catalana a Barcellona. Ela Nens Salvatges (I ragazzi selvaggi), in concorso al festival che, in circa cento minuti, descrive il percorso di tre adolescenti: Alex, Oky e Gabi. 15 anni il primo, 14 gli altri, frequentano la stessa classe, ma sono di differente estrazione sociale. La famiglia di Alex è la meno abbiente; il padre di Oky, la ragazza del gruppo, non ha problemi finanziari; il padre di Gabi gestisce una palestra e allena il figlio nel kick-boxing. Nessuno dei tre adolescenti vive un rapporto sereno con i genitori. Prendendo spunto da un fatto di cronaca, il film mette a nudo le incomprensioni familiari e i guasti provocati da insegnanti insensibili. Va detto che nella prima parte si ha la sensazione della descrizione di cose ovvie e di poco interesse. Nel finale pero’ i tre personaggi prendono forma mostrando caratteri ben definiti che permettono un approccio col mondo giovanile e con quello scolastico dei nostri giorni. Cronaca di rivolte durante gli anni di formazione, il film pecca di un montaggio che sembra imbrogliare le carte e che gioca a creare tensione e suspense nella vicenda dei tre studenti.
In concorso anche il secondo film tedesco, Das Wochenende (Il fine settimana) di Nina Grosse, diplomata alla scuola di cinema di Monaco nel 1987 e autrice di alcuni film e di numerose serie Tv a partire dal 1990. Tratto da un romanzo di Bernhard Schlink, il film racconta una rivolta fallita e un tradimento. Jens Kessler (Sebastian Koch), terrorista liberato dopo 18 anni di detenzione, é accolto in casa della sorella che ha invitato anche Inga, ex moglie di Jens e attuale compagna del facoltoso Ulrich. Il pranzo dovrebbe rappresentare il primo passo verso la normalità per il ritrovato Jens, ma lui si chiede da diciotto anni chi é stato a tradirlo e la domanda non si fa attendere. Tutti lo negano, trarre addurre che chi lo ha fatto puo’ aver tentato di mandarlo in prigione per non farlo uccidere dalla polizia. Inattesa, giunge anche la figlia di Jens che telefona a Gregor, il fratello che il padre non aveva voluto riconoscere, e che si aggiunge al banchetto in maniera aggressiva. Incomprensioni, tensioni, scontri. Il gruppo si sfalda. Inga non é piu’ sicura dei suoi sentimenti per Ulrich. Gregor, dopo lo scontro, capisce le ragioni del padre. La sorella di Jens ha qualcosa da dire. Tra i limiti del film, le persone immaginarie di una rivolta reale, l’affastellarsi del chi é chi in un racconto claustrofobico, e la scelta del racconto di finzione che non aggiunge niente alla conoscenza di fatti reali e che nel contempo non convince come fiction.
Invasion (Invasione), film del georgiano Dito Tsintsadze, in concorso al festival, è di produzione austriaca e tedesca. E’ un‘opera girata in tedesco in una villa - castello di stile nordico, un testo che mantiene atmosfere e comportamenti tipici del cinema di questo cineasta. Allievo di Otar Iosseliani ed Eldar Shengelaya, autore di dieci film incluso An Erotic Tale del 2002, il regista sembra giocare con lo spettatore imbastendo l’opera di sorprese, tensione e atmosfere cariche di mistero. Protagonista del racconto, scritto dallo stesso regista, é Joseph, vedovo sessantenne, che incontriamo al cimitero sulla tomba della moglie. Rassegnato, chiuso in un’espressione malinconica, sussurra frasi di chi non sembra piu’ chiedere niente alla vita. Una signora gli si avvicina: piacente, i capelli rossi, non ancora cinquantenne, gli dice di chiamarsi Nina, di essere stata amica della moglie prima di sposarsi e che ha saputo in ritardo della sua dipartita. Gli presenta il figlio, Simon, istruttore di kendo, e il vedovo li invita a casa. Dopo una breve frequentazione, Nina gli presenta la nuora, Milena, e gli dice che la giovane coppia ha problemi di alloggio. Joseph é contento di ospitarli. Presto scoprira’ che i due hanno un figlio e sara’ lieto di accoglierlo in casa. L’invasione é cominciata. Anche Nina si ferma per un breve soggiorno e s’installa. Capita in visita capita anche un amico, Marco, compagno di Nina da quando é rimasta vedova. Si fa tardi, chiede di restare per una notte, e apre un ufficio, dove riceve alcuni collaboratori. Joseph comincia a rendersi conto dell’imbroglio ma Nina tenta di avere un rapporto sessuale con lui adducendo che a Marco non importa. Tuttavia Joseph la respinge, ma non rinuncia a una relazione con Milena quando questa gli s’infila nel letto. Nondimeno la pressione degli ospiti diventa opprimente e Joseph chiede loro di andarsene. Ci riuscira’ dopo una serie di scontri drammatici e di soluzioni impreviste, in un gioco al massacro che il regista ha concertato con un sorriso beffardo.
Dall’est è arrivato un altro film in concorso: Sanghaj dello sloveno Marko Nabersnik. Sono 124 minuti per raccontare il destino di una famiglia di gitani attraverso quattro generazioni. Al centro della storia c'è la generazione a cavallo tra la fine della Iugoslavia e la nascita della Slovenia. Protagonista Lutvija Belmondo Mirga che in prossimita’ del confine italiano fonda il villaggio di Sanghaj che presto attira nomadi dai paesi dell’est. Il fondatore intreccia buone relazioni con le autorita’ locali per ottenere il collegamento elettrico e per l’istruzione dei bambini, ma non fa menzione dei suoi traffici: droga prima della guerra dei balcani, e poi armi. E saranno proprio queste ultime a tradirlo e a portarlo in tribunale. Sorta di favola gitana sorretta da un sapiente commento musicale e dai racconti della vita del villaggio, il film ricorda le commedie politico - sociali dell’era di Tito, celebrate dal cinema iugoslavo e scorre piacevolmente senza però apportare niente di nuovo alla tradizione del cinema di questo paese.
Un accenno merita la prima mondiale di due coraggiosi registi italiani residenti a Parigi: Ilaria Borrelli e Guido Freddi che con una produzione indipendente si sono recati in Cambogia per girare un film sul fenomeno della pedofilia, Talking to the Trees (Parlando con gli alberi). Autori del testo, lei è anche attrice per necessita’, narrano di una donna che raggiunge il marito in Cambogia e scopre che ha un rapporto con una bambina. Non riesce a prendere contatto con il marito, e deve vedersela con lo sfruttatore al quale riesce a sottrarre due bambine e a farle fuggire con lei. Accanto ad alcuni paesaggi ripresi con molta maestria, il film segue la protagonista nel suo peregrinare nella foresta.
Karakara di Claude Gagnon (Québec 1949) è il film canadese in concorso al festival. Questo cineasta è un produttore e regista che negli anni ‘70 ha vissuto in Giappone. Questa volta é sceso a Okinawa per narrare il tramonto di un uomo tranquillo, un professore sulla sessantina. Lasciato dalla moglie, considerato noioso dai due figli, chiamato Fabule dagli allievi, Pierre va in pensione e ne approfitta per un viaggio alla ricerca di sé. A Okinawa cerca pace, maestri e scorci di natura dove poter riflettere. Durante la prima settimana ha la sensazione di provare le sensazioni giuste, poi incontra Junko, dinamica quarantenne in rotta col marito, e ha una relazione. Il giorno seguente crede che sia tutto finito. Invece la donna é la’, inseguita dal marito che l’ha percossa, pronta a seguirlo. E fara’ un viaggio movimentato, non privo d’insegnamenti. Primo fra tutti quello di una signora di 86 anni che consiglia di non guardare mai al passato, ma di preoccuparsi del futuro che si vuol vivere. Interpretato da Gabriel Arcand e Youki Kudoh, il film dura cento minuti, si avvale di musiche che permettono di apprezzare paesaggi, albe e tramonti, e invita all’ottimismo. Gli anziani in sala hanno calorosamente applaudito.
82 minuti dura l’unico film italiano in concorso: L’innocenza di Clara di Toni D’Angelo, (Napoli 1979), secondo film dopo Una notte del 2007. Girato nelle cave di marmo di Carrara e nei boschi della Lunigiana, narra di due quarantenni, Giovanni e Maurizio. Il primo é sposato e ha una figlia adolescente; il secondo, che dirige la cava, é celibe e si sposa in apertura di film. Lei é Clara, giovane, bella, e affettuosa, ma da sola a casa si annoia. L’ex amante l’assilla, e qualche volta lei cede. Giovanni scopre la relazione e minaccia di morte l’uomo. Poi gli aventi precipitano, e durante un battuta di caccia ci scappa il morto. Interpretato da Chiara Conti, Alberto Gimignani e Luca Lionello, il film descrive guasti della vita di provincia, frustrazioni e tradimenti, in un paesaggio senza speranza.
Altra anteprima mondiale, quella del film fuori concorso La moglie del sarto di Massimo Scaglione. Interpretato da Maria Grazia Cucinotta e Marta Gastini, narra di madre e figlia che hanno una sartoria al centro di un paese in Calabria. Siamo negli anni ’50. La morte del sarto scatena l’avidita dei potenti che della sartoria vogliono fare un albergo per incrementare il turismo. Le due donne resistono, ma devono affrontare minacce, insulti e il boicottaggio del sindaco. In qualche maniera se la caveranno. Tra saga paesana, dramma e commedia, un invito a visitare il sud in un film di donne battagliere.
Il festival è arrivato al giro di boa con la presentazione in concorso di un film cinese e uno spagnolo. Wings (Ali) porta due firme: Yazhou Yang, cinquantasei anni, autore di cinque film; Bo Yang, esordiente che ha studiato in Nuova Zelanda. Insieme hanno realizzato a un film composito, un dramma spesso accompagnato da musica d’opera e da passi di balletto, imperniato sul sostegno ai disabili. Xiaobei, studentessa a Pechino, viene da una zona rurale. Senza soldi, pentita di aver firmato un contratto per accogliere in grembo il figlio di una coppia sterile, tenta il suicidio. Ospitata dalla madre di due ragazzi disabili, collabora col più grande, suo coetaneo, che lavora in un orfanatrofio. Si chiama GongPing, é privo di braccia, ma riesce a suonare il piano con i piedi. Dapprima Xiaobei prova repulsione per il giovane, ma conoscendolo meglio lo apprezza. Insieme vivranno alcune avventure, tra le quali una fuga per sfuggire alla coppia che rivuole i soldi pagati per avere un figlio. Quando la madre di GongPing, autista di autobus urbani, paga il debito della ragazza, torna il sereno. Il film dura novanta minuti, e in questo é perfetto. Lo svolgimento del racconto, ora fracassone, ora trionfante, a volte confuso, ha spinto alcuni spettatori a lasciare la sala.
Di taglio notevolmente narrativo, genere cinema americano anni ’50 e ’60, é Miel de naranjas (Miele d’arance) di Imanol Uribe, autore di una dozzina di film negli ultimi trent’anni, spesso premiato. Tornano sugli schermi le nefandezze della dittatura del caudillo, quelle commesse in tempo di pace, e che allora in Europa erano minimizzate. Da fatti reali, documentati da lettere ritrovate, e su sceneggiatura di Remedios Crespo, il regista spagnolo ci porta nell’Andalusia degli anni ’50 per descrivere l’attivita’ di gruppi clandestini di opposizione al regime, e le esecuzioni sommarie praticate da esercito e polizia. Protagonisti due giovani, Enrique e Carmen che s’innamorano a prima vista. Lo zio della ragazza, ufficiale della milizia, offre a Enrique, soldato, un posto in tribunale. Lui vorrebbe insegnare in una scuola. Quando riceve una grande casa requisita e Carmen lo prega di accettare, la restaurano. Sennonché Enrique é scosso dalle fucilazioni alle quali deve assistere, e quando mettono a morte lo psichiatra della casa di anziani dove é ricoverata sua madre, accetta di collaborare con una cellula che opera nell’ospizio. Le sorprese saranno molte. Una volta in contatto con i clandestini scopre che molti sono sue vecchie conoscenze. Poi una spiata fara’ precipitare gli eventi, ma il giovane avra’ un colpo di fortuna. Atmosfere, ricostruzioni d’epoca e un attento lavoro di attori (Iban Garate, Blanca Suarez, Karra Elejalde, Eduard Fernandez, Angela Molina) offre cento minuti d’intrattenimento assicurato. Niente cinema nuovo. Il taglio del racconto é tradizionale, ma vale la pena ricordare crimini e misfatti di un regime del quale alcuni documentari, circolati in Festival di cinema circa dieci anni fa, testimoniavano che oppositori di Franco erano ancora in prigione nel 1974 ed erano impiegati in lavori forzati.
Alla soglia degli ottant’anni, Krsto Papic’, nativo del Montenegro, con una prolifica filmografia che copre gli ultimi quarant’anni, ha presentato in concorso Cvjetni Trg (Piazza dei fiori). E si é permesso di giocare la commedia in un thriller di 102 minuti. Sostenuto da validi attori, (Drazen Kuhn, Dragan Despot, Mladen Vulic’), e dalla sceneggiatura di Mate Matisic’, narra di un attore sconosciuto, (recita il lupo in un teatro di marionette) che è incastrato da un commissario di polizia. Per proteggere il figlio, sorpreso a fumare droga, l’attore accetta di travestirsi da sacerdote per confessare un criminale ricoverato in clinica. Scoprira’ che é il fratello del commissario, con la cui moglie ha avuto una relazione che ha spinto la donna al suicidio, e che intrattiene rapporti col potere politico e con quello religioso. La sua registrazione, pero’, é stata boicottata. Il commissario non ha prove contro il fratello, e l’attore pensa di averla fatta franca. Senonché il mafioso viene a sapere di essere sano, viene dimesso e cerca il prete. Quando scopre la sua vera identita’, lo fa cercare dai suoi uomini per eliminarlo. Un po’ d’intuito e tanta fortuna proteggono l’attore e la sua famiglia. Film insolito per un festival, ma anche simpatico intermezzo senza molte pretese, che intrattiene e diverte.
Per il turco Ismail Gunes, cinquanta anni, Atesin Dustugu Yer (Dove il fuoco brucia) é il decimo film e presenta in concorso un testo sul delitto d’onore. Ambientato in una sperduta localita’ rurale, l'opera racconta di un’adolescente che è ricoverata d’urgenza in ospedale dove i genitori scoprono che é incinta. Si chiama Ayse, e non vuol rivelare il nome del padre del bambino. I medici scoprono anche una malformazione, e deve essere operata d’urgenza. Il film descrive la disperazione e la furia del padre che si sente disonorato e che secondo consuetudini ataviche, deve uccidere la figlia per salvare l’onore della famiglia. Per farlo si munisce di veleno e di arnesi per scavare una fossa. Fa montare Ayse in auto per portarla nell’ospedale di una grande citta’, ma progetta di sbarazzarsene durante il tragitto. Senonché incontri ed eventi imprevisti fanno traballare il suo progetto. La ragazza si rivela affettuosa e attenta ai desideri del padre e lo aiuta quando é colto da un attacco epilettico. Il padre, dopo aver pensato a lungo come e quando eliminarla, improvvisamente capisce che deve salvarla. Accelera, ma durante la sosta da un benzinaio, un camion urta la macchina, si apre il portabagagli e la ragazza scopre la bottiglia di veleno, la piccozza e la pala. Il finale é aperto. Dura 105 minuti e lo svolgimento del racconto é volutamente lento quasi volesse assecondare i ritmi della natura. Un cambio di tensione si ha con l’inizio del viaggio che assume i toni del thriller.
Fuori concorso l’anteprima di un film americano girato a Montreal: The Words (Le parole) di Brian Klugman e Lee Sternthal. Sorta di omaggio a Ernst Hemingway, narra di un giovane scrittore a corto d’idee. In viaggio di nozze a Parigi compra una vecchia borsa di pelle. Di nuovo in America, vi scopre un manoscritto celato da una chiusura lampo. Ne é affascinato. Lo presenta all’editore, ed é subito successo, ma non dura a lungo. Il vero autore é un ex soldato americano (Jeremy Irons) che ha narrato la sua storia d’amore con una ragazza francese, (Olivia Wilde), la morte della loro bambina, e la fine della relazione. Il vero autore lo segue in un parco, e con fare gentile gli rivela che quella é la sua storia, ma non vuole niente. Ora ha una vita sua. Il passato non gli interessa. Sentiva soltanto il dovere di informarlo che aveva rubato la vita di un altro. E se ne va. Il giovane (Bradley Cooper) lo perde di vista. Poi lo cerca per tentare di riscattarsi. Lo trova in una serra, ma in maniera garbata e con molta fermezza l’autore lo mette alla porta. Gli dice di non cercarlo piu’. Il problema di coscienza é del giovane, e dovra’ imparare a conviverci. É l’esordio ns1.bluehost.com romantico di due giovani che nel frattempo lavorano a un altro progetto: Tron: l’Heritage.
Per il film russo in concorso la produzione non dovrebbe essersi preoccupata molto del budget. Iskupleniye (Espiazione) di Alexander Proshkin é una sorta di affresco delle miserie, delazioni e sofferenze del dopoguerra russo con la partecipazione di folte masse di figuranti e comparse. Passata la settantina e con una ricca filmografia che copre gli ultimi trentacinque anni, Proshkin ha portato sugli schermi un romanzo popolare di Friedrich Gorenstein. Lungo due ore, girato in bianco e nero, il film illustra la cruenta coabitazione, e la lotta e i sotterfugi per procurarsi da mangiare. Difficile sopravvivere, ma Ekaterina, (Tatiana Yakovenko), vedova di un eroe di guerra, a volte riesce a procurarsi piu’ della razione che le spetta. Mantiene Sasha, (Victoria Romanenko), la figlia adolescente, e una coppia clandestina che ha accolto in casa. Sasha, al contrario, é una ragazza istintiva, egoista e avventata. Quando vede la madre in compagnia di un uomo, l’accusa di tradire la memoria del padre e la denuncia per i furti di cibo. La madre è arrestata. I due clandestini, ritenuti innocenti, restano in casa dove trova alloggio un giovane ufficiale (Rinal Mukhametov), che s’innamora di Sasha. Si sposano, ma il militare é assegnato in un’altra citta’. Sul treno del marito viaggia anche Ekaterina, deportata per alcuni mesi. Quando la madre torna a casa, Sasha e la coppia clandestina hanno figli, ma dell’ufficiale non si hanno più notizie. Al film hanno collaborato tecnici e intellettuali della generazione di Proshkin, oltre a un folto gruppo di attori. Gorenstein, l’autore del romanzo, scomparso a Berlino nel 2002, aveva sceneggiato film per Tarkovsky e Mikhalkov. Deve esserci stata grande attesa in Russia, ma il film sa di cose già viste. Niente che non si sapesse, raccontato attraverso scontri quotidiani e una storia d’amore appena accennata in attesa di una svolta o di un’impennata che non arrivano mai.
Ha sorpreso, invece, il film austriaco Anfang 80, che si potrebbe tradurre: Iniziare a ottant’anni. 90 minuti diretti dall’affiatata coppia Sabine Hiebler & Gerhard Ertl, (otto film all’attivo), e un paio di attori formidabili: Karl Merkatz, Christine Ostermeyer. Anche qui potremmo scrivere: niente di nuovo, ma la storia di due ottuagenari, Rosa e Bruno, é accattivante. Sicuramente é stato accolto dall’applauso piu’ lungo e piu’ caloroso, perché racconta cose rassicuranti. I registi si muovono su un percorso molto frequentato, ma lo fanno con garbo, sensibilita’ e con una perfetta scelta dei tempi narrativi. A chi puo’ interessare la vicenda di Rosa, 80 anni, malata di cancro, sei mesi di vita. La figlia ha gia’ affittato la casa ritenendo che la madre non sarebbe uscita viva dalla clinica, così lei deve andare in albergo. Sulla strada incontra un coetaneo gentile e disponibile, Bruno. E’ attrazione a prima vista, ma lui ha figli e nipoti. La accompagna in albergo e tutto finisce li. Giorni dopo s’incontrano per caso, si parlano. Bruno sente sensazioni che aveva provato a vent’anni. Si baciano. Cominciano a frequentarsi, ma vengono scoperti. Il figlio lo fa dichiarare incapace. Tuttavia lui decide di prendere un appartamento in affitto e ci va a vivere con Rosa. Non é il caso di raccontare tutta la storia. Va detto pero’ che la vicenda permette agli autori di descrivere anche il rapporto degli anziani con la società e con le istituzioni lasciando emergere il malessere di una modernita’ che ha sfrattato l’anziano capofamiglia perché ha sepolto il patriarcato.
Finalmente la Francia in concorso al festival, ma il film delude. Comme un homme (Come un uomo), ribattezzato in inglese Bad seeds (Cattivi semi), è opera d’un regista nato nel 1968, Safy Nebbou, al suo quarto film. Si apre col sequestro di una giovane professoressa d’inglese. É stata aggredita da un allievo, Greg, che rischia l’espulsione. Amico di Louis, ambedue sedicenni, Greg lo coinvolge nel rapimento della professoressa che viene nascosta in una fatiscente casa di campagna di Louis. Figlio di un importante rappresentante del liceo, Louis chiede a Greg di rilasciare la ragazza. Si é vendicato abbastanza, dice, ora può lasciarla andare. Senonché Greg ha un incidente d’auto. In coma, lascia tutta la responsabilita’ al coetaneo. Il disorientamento e le tergiversazioni di Louis diventano il perno del racconto. Che fare? Greg muore e Louis va nel pallone. Trova persino una pistola con la quale vorrebbe liberarsi della donna, ma ha sedici anni e preferisce portarle del cibo. I tormenti dello studente occupano tutta la seconda parte del film che mette a nudo anche i rapporti tra padre e figlio. Niente di nuovo, diremmo, durante i novantacinque minuti di proiezione.
Altre pretese, invece, ha il film del famoso regista svedese Jan Troell, ottantuno anni e una lunga filmografia coronata di premi. Dom Over Dod Man, che si potrebbe tradurre Sentenza su un uomo morto, e che in inglese é stato tradotto The Last Sentence (L'ultima sentenza), dura 124 minuti. Il film è girato in bianco e nero e é imperniato sulla vita di uno dei più grandi giornalisti svedesi del secolo scorso, Torgny Segerstedt, capo redattore del quotidiano economico Handelstidningen di Goteborg. Sceneggiato dal regista insieme col romanziere Klaus Rifbjerg, il film si svolge tra il 1933 e il 1945, anno della morte di Segerstedt. Si apre con immagini di repertorio dell’avvento di Hitler, e con la ferma opposizione del giornalista che pubblica un articolo manifesto nel quale dichiara che Hitler al potere é un insulto. E sostiene la sua battaglia fino alla morte. Il suo atteggiamento, pero’, pone problemi al governo svedese quando la Russia invade la Finlandia, ma soprattutto quando i nazisti occupano Danimarca e Norvegia. I suoi articoli, infatti, erano letti dai tedeschi che non mancarono di protestare col governo svedese. La sua lotta viene messa in relazione anche al fatto che la moglie era norvegese, che la proprietaria del giornale era ebrea e sua amante, che il presidente del consiglio d’amministrazione del giornale era suo amico. Di tutto questo, Jan Troell fa un film essenziale, serrato ed elegante, che mostra gli incontri del giornalista con i ministri e col re. Tuttavia, il profilo di Segerstedt che si batte per la liberta’ contro la dittatura, appare quello di un personaggio egocentrico ed egoista. Non solo trascura la moglie per intrattenersi con l’amante, ma dedica molto piu’ tempo e affetto ai suoi cani. La moglie ne morra’. Lui continua la sua battaglia contro Hitler, anche mettendo a rischio le sorti del suo paese, perché il suo problema oltre all’impegno politico sociale é quello di sentirsi a posto con la propria coscienza.
Un accenno meritano i due film del regista argentino Eliseo Subiela che non girava film da quattro anni: Rehen de ilusiones (Ostaggio di un’illusione), Paisajes devorados (Paesaggi sfuggenti), presentati fuori concorso. Nel primo, ottanta minuti, il regista sessantottenne racconta una breve relazione tra un anziano professore e un’ex allieva. Lei appare e scompare. Suo padre informa l’insegnante che la ragazza é instabile e in cura. Mistero! No, follia. Lei uccide il padre e torna dal professore. Riprendono la relazione, ma un collega informa il professore del delitto. Che fare? Poco piu’ di una fantasia di Subiela che tra l’altro ha insegnato nella scuola di cinema. Curioso, invece, il secondo film di settantacinque minuti. Protagonista il regista Fernando Birri, nei panni di un cineasta anni Sessanta, internato da allora in un ospedale psichiatrico sotto altro nome. Lo scoprono tre studenti di cinema di Buenos Aires e decidono di intervistarlo. Lui sostiene di essere un altro, ma le sue conoscenze professionali lo tradiscono. Risposte sagaci e spiazzanti sorprendono i giovani che tuttavia riescono a conquistare la sua fiducia e che riportano una vittoria quando riescono a farlo uscire dall’ospizio dopo quarant’anni di isolamento. A Buenos Aires lo portano a vedere un film in 3D. Anche questa é un’altra fantasia di Subiela, ma s’impone il personaggio divertito e spesso divertente di Fernando Birri.
I premi
La giuria internazionale del 36° Festival des films du monde, presieduta dall’attrice Greta Scacchi, ha assegnato il Grand prix des Americas al film turco Atesin Düstügü Yer (Quando il fuoco brucia) di Ismail Gunes, 51 anni. Il film ha vinto anche il premio della critica internazionale (Fipresci).
Il Gran Premio Speciale della giuria è andato ex-aequo alla produzione tedesca Invasion (Invasione) del regista georgiano Dito Tsintsadze, e al film spagnolo Miel de naranjas (Miele d’arance) di Imanol Uribe.
Lo svedese Jan Troell ha vinto il premio per la migliore regia con Dom över Död Man (Sentenza su un uomo morto).
Il premio per la migliore interpretazione femminile è andato alla giovane attrice tedesca Brigitte Hobmeier, protagonista di Ende der Schonzeit (Fine di stagione) della regista Franziska Schlotterer. Il film ha vinto anche il Premio Ecumenico. Miglior attore maschile l’ottantunenne austriaco Karl Merkatz protagonista di Anfang 80 (L’inizio a ottant’anni) dei registi Sabine Hiebler & Gerhard Ertl. Al film è stato assegnato anche il premio del pubblico.
Migliore sceneggiatura è stata considerata quella del film sloveno Shanghai (Gitani) scritto e diretto da Marko Nabersnik.
Un premio per il miglior contributo artistico ha ottenuto il film russo Iskupleniye (Espiazione) di Alexander Proshkin.
Premio all’innovazione è stato chiamato quello assegnato al cinese Wings (Ali) di Yazhou Yang e Bo Yang.
Nei cortometraggi ha vinto il Canada con Macpherson di Martine Chartrand.
Il premio alla migliore opera prima è stato assegnato da una giuria composta da Klaus Eder (Germania), Eddie Muller (Usa), Miroljub Vuckovic (Serbia). Zenith d’oro a Casadentro (Perù) di Joanna Lombardi. Zenith d’argento a Zdjecie (Il fotografo) di Maciej Adamek (Germania, Polonia, Ungheria); Zenith di bronzo al norvegese Inn i Mørket (Into the Dark) di Thomas Wangsmo. Casadentro ha vinto anche il premio Fipresci per le opere prime.
Miglior documentario il canadese Beauty and the Breast (Bellezza e il seno) di Liliana Komorowska.
Un premio alla libertà del linguaggio è stato assegnato al 79enne Krsto Papic per il film croato Cvjetni Trg (Piazza dei fiori) e un premio per l’apertura al mondo al canadese Claude Gagnon per Karakara, che ha vinto anche il premio della Cinemathèque québécoise.
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