06 Dicembre 2010
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51° Thessaloniki Film Festival 2010 |
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Mandoo (Stanca) è il primo lungometraggio del regista iraniano Ebrahim Saeedi e racconta la storia drammatica di una dottoressa curda che ritorna in patria, dall’emigrazione in Svezia, nel 2004, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein. Lo fa soprattutto per aiutare a ritornare a casa, in Iran, al cui parente, soprattutto uno zio che ha perso la parola e la possibilità di camminare dopo un ictus. Li accompagnano il figlio dell’ammalato, sua moglie e la piccola figlia della coppia. E’ un viaggio terribile attraverso mille agguati di terroristi, militari, banditi di strada. E' un percorso costellato di sparatorie, campi minati e difficoltà di ogni genere. Il film porta un convinto sostegno alle sofferenze del popolo curdo che, conviene ricordarlo, non ha patria e vive disperso fra molte nazioni: Turchia, Iran, Iraq, Siria e alcune repubbliche nate dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Il finale è, giustamente incerto. Se la giovane dottoressa abbandona i familiari per unirsi a un gruppo di medici internazionali che tentano di rimediare in qualche modo alle terribili sofferenze di donne, bambini, vecchi, il piccolo gruppo familiare arriva alla frontiera con l’Iran ma non è detto che i militari di quel paese li lascino passare. La struttura narrativa ha il classico andamento del film di viaggio con l’inanellarsi continui di pericoli e nuove situazioni, mentre il taglio del racconto deve qualche cosa – come spesso capita nel cinema di questo paese – alla lezione neorealista. In definitiva è un’opera generosa e commuovente.
Ci sono relazioni familiari anche in Donkeys (Asini) di Morag McKinnon, nato a Singapore, ma di cultura cinematografica scozzese. Il sessantacinquenne Alfie è ora in pensione e vorrebbe fare il viaggio in Spagna a lungo sognato, ma prima vuole riallacciare in qualche modo i rapporti con figlia e nipote con cui non parla da dieci anni. Si apre, a questo punto, la classica storia dei parenti che non si sono incontrati da tempo e che, ora, tentano di rimettere assieme una relazione profondamente lacerata. Temi già visti molte volte, come appare abbastanza prevedibile il drammatico finale in cui il pensionato, scoperto di essere affetto da un cancro in fase terminale, si fa uccidere dal vecchio amico e, forse, anche compagno di letto. E’ la tipica opera per attori, un testo che conta più per il lavoro degli interpreti che per ciò che racconta. In questo caso bisogna dire che l’intero cast, da James Cosmo a Brian Pettifer a Kate Dickie, risponde all’appello nel migliore dei modi offrendo al film un’attrattiva del tutto particolare.
Periferic (In partenza), opera d’esordio del rumeno Bodgan George Apetri, conferma il buono stato di salute di questa cinematografia e, nello stesso tempo, il pessimismo sostanziale che percorre le sue opere. Matilda è in galera con una condanna a dieci anni, ne ha scontati cinque quando ottiene un permesso di ventiquattrore per assistere al funerale di sua madre. In realtà progetta di espatriare con i soldi che le sono stati promessi dal suo ex fidanzato, un magnaccia della più bella specie, in cambio del suo silenzio al momento della condanna. Messa da parte dai parenti, imbrogliata dal prosseneta, la giovane si trova, quasi casualmente in grado di rubargli una bella somma di denaro. E’ l’occasione per ritirare il figlio di otto anni dall’orfanatrofio e raggiungere Costanza dove prendere una nave per l’estero. Il ragazzino, che già si concede per denaro a maturi pedofili, sembra apprezzare le attenzioni della madre, ma, alla prima occasione la deruba e scappa. Ora è sola, senza denaro, ricercata dalla polizia e senza alcuna prospettiva davanti. Il film disegna un universo in cui non ci sono personaggi positivi, ma solo animali che si contendono con le zanne e le unghie, il necessario per sopravvivere. Il tutto è immerso in uno scenario diruto, punteggiato di ruderi e detriti, pieno di sporcizia. E’ uno sguardo che abbiamo già colto in numerose opere provenienti da questa cinematografia, ma che questa volta si fa particolarmente cupo e pessimista. In questo il film diventa sofferta e convincente testimonianza del degrado che ha travolto i paesi ex socialisti dopo il crollo dei vari regimi.
Sempre in tema di difficili situazioni ecco Jean Gentil (Il gentile Jean) della dominicana Laura Amelia Guzman e del messicano Israel Cárdenas. E’ un’opera prima che si ricollega alla tragedia del terremoto haitiano con la storia di un professore di mezz’età che si rifugia nella Repubblica Dominicana sperando in migliori condizioni di vita. Respinto quando chiede lavoro, guardato con diffidenza, finirà col morire in solitudine su una spiaggia tropicale, una di quelle che campeggiano nelle fotografie dei tour operator. E’ un film quasi privo di dialoghi, giostrato per intero sulla mimica facciale di Jean Remy Genty che riesce a darci tutte le sfumature di una sofferenza che è fisica, ma anche psicologica.
L’esordiente turca Belma Baş si riallaccia, con Zefir (Zefiro), alla migliore tradizione del più recente cinema di questo paese, quella dei registi che prediligono il quotidiano e i tempi lunghi della narrazione, ma lo fa senza rinunciare alla drammaticità del racconto. Zefir è un ragazzo di undici anni che la madre, fotografa naturalista e militante ecologista, affida alla nonna e al nonno mentre lei va in giro a scattare foto e a partecipare a proteste. Il giovane ama la natura, si fa amici nel vicinato, ma soffre di un senso d’abbandono e solitudine che lo porterà a compiere un matricidio. Il film è cadenzato da panorami affascinanti stupendamente fotografati da Mehmet Y. Zengin che fanno da contraltare ai turbamenti del ragazzo e, se si vuole, all’impegnata indifferenza della madre. I ritmi narrativi sono, come accade di solito in questo tipo di cinema, lenti e dettagliati, spesso coincidenti con lo scorrere del tempo reale. Ne risulta un testo accettabile solo da palati abituati a proposte riflessive e quasi del tutto scevre da eventi.
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