06 Dicembre 2010
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51° Thessaloniki Film Festival 2010 |
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Morgen (Domani) dell’esordiente rumeno Marian Crisan è un bel film di forte impatto umanitario, anche se un po’ vecchio nella confezione. Nelu campa come guarda di sicurezza di un supermercato aperto una cittadina al confine fra Romania e Ungheria. La sua vita familiare è segnata da rapporti tesi con la moglie, che lavora in un panificio gestito dal fratello. Vive in una casa deruta, con un tetto sfondato che la donna vorrebbe vendere, assieme al terreno, per trasferirsi in città. La sua vera passione è la pesca ed è proprio con la canna fra le mani che, un giorno, s’imbatte in un turco in fuga dal suo paese verso la Germania con la speranza di raggiungere la famiglia che vive là. Anche se i due parlano lingue diverse e si capiscono a stento, la guardia giurata prova quasi subito compassione e simpatia per questo poveraccio. Fra loro nasce una vera amicizia, anche per l’antipatia viscerale che Nelu prova nei confronti di guardie e doganieri, qualunque sia il colore delle uniformi che indossano. Proprio per dare sfogo a quest’avversione, aiuterà il profugo a passare il confine e a proseguire il viaggio. L’ultima inquadratura li vede entrambi - uno con la canna da pesa fra le mani, l’altro che avanza faticosamente in un acquitrino – schiacciati dall’aria e dal rumore di un elicottero. La solidarietà umana può essere forte quanto si voglia, ma l’aggressione del potere lo è ancora di più. Il film è girato con taglio classico, come spesso capita nel miglior cinema rumeno, e non mancano i riferimenti alla lezione neorealista, così come appare del tutto apprezzabile lo spirito libertario e solidale che lo rimpolpa. In altre parole un buon film, anche se meno originale di quanto ci si sarebbe potuti attendere.
Il cinema, si sa, è soprattutto immagini, tuttavia sono rarissimi i cineasti che hanno cercato di costruire un film solo facendo leva quasi esclusivamente sull’aspetto visivo. Fra gli italiani c’è da ricordare, almeno, Franco Piavoli (1933) le cui opere (Il pianeta azzurro, 1982 - Al primo soffio di vento, 2002) sono state costruite senza far ricorso a dialoghi o a voci fuori campo. A questa bella tradizione si affianca ora Le quattro volte che Michelangelo Frammartino (1968) ha dedicato alla sua Calabria e alla vita dei campi. Il film, selezionato e premiato dalla sezione Quinzaine des Réalisateurs all’ultimo Festival di Cannes, è un movimento in quattro tempi che cadenzano i rapporti e l’armonia fra il mondo umano, quello animale (il cane che compare nel film ha ricevuto il premio Palm Dog, sempre sulla Croisette) e quello vegetale. Se il vecchio pastore, che spera di curare con la polvere di chiesa il grave male che lo affligge, morirà, le sue capre saranno ereditate da un altro uomo e gli animali continueranno a dare vita a nuovi cuccioli. Uno di questi piccoli si smarrirà e assopirà (morirà?) all’ombra di un albero maestoso, che sarà tagliato per farne il palo della cuccagna in una festa paesana. Terminata questa, finirà ridotto in ceppi per essere trasformato in carbone fossile e, quindi disperso nell’aria attraverso il fumo dei camini. E la visione di un mondo circolare in cui veramente nulla si crea e nulla si distrugge, un universo armonico cui il regista guarda con ironia e abilità, riuscendo a trasformare gli animali in veri personaggi, forse più degli stessi esseri umani.
Fratello e sorella giapponesi stanno viaggiando attraverso gli Stati Uniti. Lei non parla e non capisce la lingua, lui si arrangia con l’inglese e, soprattutto, ha finalizzato il viaggio alla visita al campo d’internamento di Manazar ove, nel corso della seconda guerra mondiale, migliaia di giapponesi, molti con cittadinanza e nascita americana, furono rinchiusi per l’assurdo sospetto che la loro origine razziale li portasse a simpatizzare o, peggio, a spiare per conto del nemico. Un guasto all’automobile che hanno noleggiato, li obbliga a fermarsi per alcuni giorni in un paesino dell’America profonda, fra party alcolici, ignoranza del mondo esterno, pregiudizi, razzismo, ma anche tenerezza e curiosità verso i nuovi venuti. Per la giovane Atsouko è un’occasione di scoperta e contatto, anche erotico, con un universo diverso dal suo, per suo fratello Rintaro è solo un incidente di precorso di cui sbarazzarsi quanto prima. In Littlerock Mike Ott - uno specialista di videomusicali qui alla terza regia cinematografica, compresa quella del cortometraggio A. Effect (2008) – usa la macchina da presa con molta libertà, indugia su primi e primissimi piani e dettagli e riesce in un’impresa sicuramente difficile: raccontare una storia con pochi personaggi, uno dei quali non comunica verbalmente con gli altri. Il risultato è un’opera non particolarmente nuova ma singolare e piacevolmente leggera.
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