L’ispettore generale (Revizor, 1836) è considerato il capolavoro di Nikolaj Vasil'evič Gogol' (1809 – 1852), uno scrittore la cui vita e opere risentono di una lacerante contraddizione fra ossessioni religiose e capacità di disegnare satiricamente i mali della società. La sua produzione letteraria è di tale importanza da aver indotto Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821 – 1881) a dichiarare, a proposito della generazione di letterati e intellettuali russi della metà ottocento: siamo tutti usciti da Il cappotto di Gogol.
Il testo di cui parliamo - copione che ha dato vita, fra il 1933 e il 1999, a quattro film – racconta i maggiorenti di una piccola e corrotta città di provincia messi in allarme dall’arrivo di un ispettore mandato dalla capitale per esaminate il loro operato. In piena paranoia individuano il funzionario in un truffatore da quattro soldi sceso nell’unico albergo del borgo. Lo riempiono di regali e denaro, lo avvicinano uno ad uno per salvare se stessi e denunciare il comportamento degli altri, arrivano a chiudere un occhio quando il supposto revisore insidia la moglie e la figlia del sindaco, salvo scoprire, quando il manigoldo è ormai lontano che il vero ispettore è un altro ed è appena arrivato. Damiano Michieletto propone una messa in scena letta in modo originale. Gran parte della vicenda si svolge in un bar miserabile che le note di regia vorrebbero collocato in Serbia, anche se scenografia e testo - dove si parla di rubli, copechi e si accenna, come punizione, la deportazione in Siberia – raffigurano piuttosto come una Russia degli anni sessanta. Poco importa, visto che l’asse della proposta punta sulla commistione fra pubblico e privato, fra convenienza personale e disastro sociale. Il taglio stilistico si avvicina, per colori e coreografia, a quello di un musical tragico e grottesco, approdando a un risultato affascinante e godibilissimo.