Michele Beltrami ha realizzato uno spettacolo che, sulla carta, appariva una sfida impossibile: realizzare un testo composto solo da parole che iniziano con la lettera C. C Credo come avverte la presentazione di sala, èla terza tappa di una trilogia della parola basata su due elementi: un forte virtuosismo lessicale e la proposta di un modo nuovo, più umano nell’intendere le relazioni tra le persone.
Non a caso s’inizia coinvolgendo gli spettatori chiamati a passeggiare, abbracciarsi, accarezzarsi. Qui siamo oltre il classico sfondamento della quarta parete per avviare una sorta di dolce predicazione che supera la semplice occasione teatrale per lanciare un appello al recupero degli elementi più profondi dell’essere umano. Se la prima parte, quella di funambolismo della parola, desta meraviglia, questa seconda appare meno motivata e più fragile. Michele Beltrami, nei panni di una sorta di predicatore che usa solo parole che iniziano con la lettera C, fatica non poco a dare corpo e originalità ad un discorso che scivola continuamente nel generico, ignora volutamente i molti snodi – tecnologia, politica, interessi materiali - che stanno dietro la disumanizzazione della vita (Bertolt Brecht direbbe: la reificazione dell’uomo) finendo coll’invischiarsi in una perorazione più moralista che ironica, più comiziesca che satirica. In poche parole un’occasione in cui la tecnica affonda nelle buone intenzione finendone contaminata in misura sensibile.
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