New York, sabato 25 marzo 1911: nella fabbrica-prigione della Triangle Waistshirt Company decine di operaie sono inchiodate alle macchina da cucire dal padrone yankee e dal proprio bisogno di denaro in una terra sconosciuta, mentre, sulle strade, le prime manifestazioni sindacali vengono represse a colpi di manganello. Immigrate europee senza più una patria sotto i piedi, costrette a fare i conti con i misteri di una lingua sconosciuta e di un’occupazione – produrre camicie a cottimo – che ha tutta la disumanità dei lavori forzati, queste donne sole, dai mariti spesso depressi e disoccupati, vivono sulla pelle la tragicità di un sogno di benessere risoltosi ben presto in squallore inenarrabile (Lamerica non è in fondo che un castello di promesse). Tra loro, una madre italiana e le sue due figlie si trovano a sopravvivere a fatica, calate in una quotidianità fatta di sudore e sfruttamento. Sarà la figlia più grande, in un raptus, a provocare inavvertitamente l’esplosione di scintille del titolo: un terribile incendio che distruggerà l’intero edificio, condannando a morte 146 innocenti.
Come spesso accade nei monologhi teatrali d’impegno civile, la base dello spettacolo è un fatto di cronaca realmente accaduto. Nel caso di Scintille, una drammatica, per molti versi raccapricciante, storia di sangue, fatica e miseria lontana nel tempo e nello spazio, in grado di far riflettere il pubblico sul dramma del vivere che ha coinvolto persone semplici ormai senza volto e nome, rievocate dalla regista-autrice Laura Sicignano con il preciso scopo di conferire loro rispetto in morte e dignità nel ricordo. Protagonista assoluta è naturalmente la torinese Laura Curino, fondatrice del Laboratorio Teatro Settimo e colonna del teatro di narrazione italiano, impegnata qui ad incarnare i tre personaggi al centro della vicenda: un’interpretazione esemplare, interamente costruita su minime alterazioni della voce o gesti impercettibili (e calcolatissimi). La regia, come è giusto, si limita ad assecondarla, senza alterare lo spazio scenico con trovate plateali o indebite intrusioni sonore (ad eccezione di Mamma mia dammi cento lire, nenia del tempo andato qui usata, con astuzia, per riempire i vuoti) e preoccupandosi soprattutto di non rovinare il raccoglimento necessario alla narrazione, progressivamente sempre più drammatica e concitata. Grazie a quest’impostazione controllata e rigorosa, lo spettatore viene accompagnato lungo un fluire apparentemente spontaneo di ricordi e voci intrecciate, fino alla comparsa delle fiamme conclusive e dei corpi riversi sui marciapiedi. Un finale già scritto, inesorabilmente amaro, dilatato dalla voce off che legge il lungo elenco delle vittime in un crescendo di parole e musica: l’unica concessione all’enfasi più facile in uno spettacolo per lunghi tratti sobrio ed efficace.