Salvatore Ficarra e Valentino Picone non hanno certo bisogno di presentazioni. Palermitani, cabarettisti dalla vena surreale, hanno iniziato nei villaggi turistici approdando molto rapidamente alla televisione e infine al cinema. Zelig, Striscia la notizia e la serie di film da loro scritti e interpretati, iniziata con Nati stanchi (2002): tutti tasselli di una celebrità conquistata in virtù di fisionomie vagamente fumettistiche, tormentoni azzeccati e un tocco stralunato capace di svelare l’assurdo che si annida nella quotidianità provinciale – il Profondo Sud, si potrebbe sintetizzare con qualche approssimazione – al centro dei loro sketch più riusciti. Fondamentale però all’affermazione del duo comico siciliano è stato anche il teatro, a partire dal grande successo di In tre sull’Arca di Noè (1995), scritto da Andrea Brambilla in arte Zuzzurro, fino a Vuoti a perdere (2003) e Sono cose che capitano (2005), tutti spettacoli costruiti a quadri, basati cioè sul susseguirsi incalzante di scenette di lunghezza variabile con un ampio margine affidato all’improvvisazione e alla invenzioni verbali e fisiche del momento.
Non si discosta dalla formula vincente neanche Apriti cielo, che ha segnato il ritorno sui palcoscenici di tutta Italia dopo quasi cinque anni di assenza. Scritto e diretto a quattro mani, il testo si articola in tre quadri principali. Nel primo, una coppia di tecnici si introduce in un appartamento apparentemente disabitato – ma pieno di giocattoli erotici - per fare una riparazione all’apparecchio televisivo. Dopo una serie infinita di battibecchi (Ficarra è una sorta di cinefilo maniaco che esce dai cinema cinque minuti prima della conclusione e si diverte a raccontare i film con un’estenuante dovizia di particolari, Picone è un insicuro spaventato persino dalla propria ombra), viene rinvenuto il cadavere del padrone di casa, ammazzato da un rapinatore o da qualche marito geloso. Terrorizzati dal rischio di essere incolpati dell’omicidio, i due si dannano per ripulire l’appartamento dalle loro impronte, ma finiranno con l’uccidersi a vicenda a colpi di pistola. Nel secondo, Ficarra interpreta un prete appassionato di scommesse e Picone veste i panni del suo chierichetto megalomane e integralista, talmente ossessionato dai dogmi e dai peccati capitali da farsi confessare decine di volte al giorno. Nel terzo, infine, ritornano i due tecnici, ormai morti, persi tra le nuvole che ingombrano l’Aldilà. In attesa di scoprire la destinazione finale, compilano la modulistica relativa alle colpe di una vita intera, dando vita ad un omaggio alla celebre lettera di Totò, Peppino e… la malafemmina, durante cui si dibatte circa i significati di Gola e Accidia e si danno utili consigli a Dio per un mondo migliore (riconvertire alla pastorizia la classe dirigente italiana, per esempio). Lo spettacolo si rivela un insieme di sketch indiavolati, senza picchi memorabili ma senza neppure cadute di gusto o ritmo, tenuti insieme da gag e mini-tormentoni che fungono da rimandi interni. Sempre sul filo del facile qualunquismo, Ficarra e Picone riescono ad evitare le ovvietà tipiche di chi si affanna a colpire bersagli generici - ancorandosi alla contemporaneità prevalentemente per convenienza spettacolare – grazie ad improvvise impennate surreali e ad una capacità di trovare il ridicolo in ogni piega del reale che, unitamente alla doti mimiche e all’abilità nel rimpallare improbabili calembour, costituisce la vera cifra della loro comicità. E non è un caso, infatti, che il meglio venga a sipario riaperto, durante un secondo bis invocato a gran voce, in cui vengono narrate le presunte tare dei portieri di notte, tormento degli attori in tournée: un’ultima risata fuori programma, a conferma di come il cuore del buon cabaret risiede in realtà nell’improvvisazione.