Il quarto film americano di Gabriele Muccino, terminato nella prima metà del 2014, arriva ora sugli schermi italiani con ritardo notevole dovuto a non pochi problemi distributivi che portano ad essere il nostro il primo paese in cui esce.
Padri e figlie è il terzo titolo, girato oltreoceano dal regista italiano, che si occupa dei rapporti familiari: viene dedicato nei titoli di coda ai figli. E’ una coproduzione che coinvolge i figli del grande Sergio con la loro Leone Film Group e non ha in previsione circuitazione a breve negli Stati Uniti. Pur essendo realizzato con grande professionalità mai riesce a superare lo scoglio del melodramma che ha come unico scopo quello di fare scendere qualche lacrimuccia sul volto degli spettatori. Racconta in parallelo la vita di uno scrittore e, ventisette anni dopo, quella della figlia. L’uomo provoca la morte della moglie in incidente stradale e da quel momento si occupa della figlioletta in maniera quasi maniacale. Il regista è ancora accettabile quando racconta che dopo l’incidente il suo protagonista è emotivamente instabile ed è affetto da crisi epilettica per cui non è più in grado di scrivere un romanzo di successo e cade in povertà. La sceneggiatura del drammaturgo Brad Desch, al suo debutto del cinema, non lo aiuta con un contorto modo di raccontare. Per rendere più drammatico la già sconfortante storia si aggiunge il ricovero dell’uomo per sette mesi in una clinica psichiatrica. Inoltre la sorella della moglie, che accudisce alla bimba in quel periodo e vorrebbe imporre un’adozione, il marito avvocato che gli fa causa per togliergli la figlia e lui che deve trovare sessantamila dollari per trovare un buon difensore. Non basta, quando tutto sembra perduto, la denuncia viene ritirata perché il cognato ha messo incinta una sua giovanissima collaboratrice e abbandona la moglie. Per chiudere bene questa parte, c’è lo sforzo sovrumano fatto dallo scrittore che combatte la sua malattia, riesce a scrivere un romanzo che è la storia di lui con la figlia, ottiene un grande successo, vince un secondo premio Pulitzer che non ritira perché muore prima della premiazione. L’attore neozelandese Russell Crowe, produttore esecutivo oltreché protagonista maschile, lavora con mestiere ma non convince fino in fondo. Il peggio, però è nella parte ambientata ai giorni nostri, con una Amanda Seyfried che si laurea in psicologia, aiuta come assistente sociale bimbi reietti in cui vede se stessa, ottiene successi professionali ma ha gravi problemi nella sfera sessuale, tanto da concedersi a qualsiasi uomo glie lo chieda. Trova un ricco aspirante scrittore, innamorato del romanzo di cui lei era protagonista da bimba, che la aiuta ad uscire dal baratro. La sposerebbe ma lei cede nuovamente ai suoi insani desideri. Il finale è meglio non dirlo, ma è ovviamente prevedibile. L’attrice nell’edizione italiana non è certo aiutata della doppiatrice e ha un’espressione monocorde che mai trasfonde emozioni. Rimane, comunque, una buona struttura narrativa che salva il film dallo sfacelo totale, ma che non basta per farne un titolo da consigliare.