Anime nere è diretto da Francesco Munzi, qui alla terza regia dopo Samir (2004) e Il resto della notte (2008). Lo scenario è quello delle faide sanguinarie che dilaniano le varie cosche che si contengono la supremazia sul traffico di droga e costituiscono, tutte assieme, l’ossatura dell’’ndrangheta calabrese. Il film parte da Amsterdam, transita per Milano e approda all’Aspromonte.
Qui il confronto fra due famiglie malavitose si gioca a colpi di omicidi e attentati. Il finale è debitamente tragico con il solo personaggio positivo, l’unico di tre fratelli coinvolti nella storia ma estraneo a traffici o vendette, che spara al congiunto diventato capo della famiglia dopo l’uccisione del massimo boss. E’ una sorta di giustizia privata postuma che punisce chi ha trascinato gli altri, anche i giovani, nella spirale della violenza e dell’odio. Per qualcuno il film cita il genere western, seppur ambientato ai giorni nostri. E’ un accostamento inesatto, in quanto è un’opera che ha maggiori legami con il melodramma rusticano che con le storie di cow boys e pistoleri. Questa malavita appare del tutto decontestualizzata, traffica in stupefacenti, ma lo fa senza nessun chiaro legame con la politica e in un ambiente che le consente di prosperare a fare ciò che vuole. Sono personaggi e storie del tutto avulse da una qualsiasi contesto minimamente indagato e gli snodi drammatici hanno più a che fare con le pratiche del melodramma che non con quelle dell’indagine socialmente motivata. Un film ben girato e costruito con la giusta suspense, anche se alcuni tempi appaiono eccessivamente dilatati, ma concepito in modo da non disturbare nessuno. Forse non è un caso che a produrlo sia stata, con altri, la Rai.